Gianni Minà, addio al futurista del giornalismo e icona del 900

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La morte di Gianni Minà ha scosso l’Italia intera. E’ difficile immaginare che un giornalista possa diventare una icona del ‘900 italiano.

Alla stregua di Maurizio Costanzo e Giampiero Galeazzi, Gianni Minà o soltanto Gianni, così come lo chiamava confidenzialmente Massimo Troisi, lo è diventato. La sua leggenda è andata componendosi di fatti e di testimonianze raccolte in giro per il mondo, non certo di opinioni buttate nella giostra mediatica giusto per avere l’agognata visibilità. L’attenzione con cui Minà si è legato alla realtà delle cose non gli ha impedito di rimanere vivo nel raccontarla. Ha fuso neutralità e parzialità fino a confonderle. Minà restituiva il nucleo delle sue opinioni scegliendo chi intervistare e chi raccontare e soprattutto dove compiere la sua attività d’informazione.

Minà e Napoli

Mentre le copertine dei giornali e le televisioni inseguivano la Milano da bere, Minà si beava di Napoli e della sua arte rivistata finalmente in chiave underground. Mentre il mondo inseguiva a caro prezzo il sogno americano, Minà raccontava Cuba e la sua resilienza alla fagocitosi a stelle e strisce. Se tutti snobbavano Panatta, reo di non essere vincente all’altezza del suo talento, a fine partita Minà otteneva la dichiarazione inattesa dell’atleta “la gente alla fine è buona, mi vuole bene”, suturando un rapporto diviso da stima e invidia. Se tutti inseguivano le frasi radical chic di Platini, Gianni da Torino consolidava quel canale preferenziale che lo renderà il cantore più fedele della vera immagine di Maradona.

Muhammad Alì

Quando il mondo cadde nell’imbarazzo di dover apprezzare Muhammad Alì, il pugile più forte di tutti i tempi perennemente contro l’establishment, Minà divenne un suo interlocutore privilegiato. Quando l’Italia riduceva il neorealismo cinematografico alle istanze postideologiche della commedia, Minà si rivolgeva a Sergio Leone e alla sua produzione che nel frattempo influenzava Hollywood.

L’Italia e la libertà di stampa

Nel tempo da cui scrivo l’Italia ha appena chiuso al cinquattotesimo posto per la libertà d’informazione. Non ci sono abbastanza elementi per ritenere che ai tempi di Minà la situazione fosse tanto migliore. Ciò nobilita ancor di più il lavoro svolto dal giornalista sabaudo che con Cavour non aveva niente in comune se non la terra natìa. Era un uomo aperto e sorridente, mai accalorato, rosso sì ma di risa e talvolta d’imbarazzo, perennemente empatico, un sensale della qualità altrui: la fiutava, la individuava, la consacrava. Un passo sempre dietro l’artista, così in ombra da poter tessere le fila di un destino fortunato per sé e per i suoi compagni di viaggio che finivano per raccontarcelo.

Troisi il miglior narratore di Gianni Minà

Il miglior narratore di Minà è stato senza dubbio Massimo Troisi. L’agendina di Minà, mitizzata dall’attore campana, idealizzava la capacità dell’uomo di rimanere connesso con il mondo anche se privo d’internet. A Blitz, uno straordinario successo televisivo di Gianni Minà, Troisi gli rimproverava una sua presunta bonomia “possibile Gianni che in questo programma non sono mai invitati gli scemi?”. Al giornalista torinese non interessava in alcun modo distruggere il personaggio ma costruirlo per intero e non a singhiozzo.

Pochi oggi con la classe di Minà

Ora restano in attività pochi della classe e del garbo professionale e umano di Minà. Non ne resta nessuno che possa però ereditare il suo ruolo di uomo venuto dal futuro: sempre un passo avanti rispetto ai suoi colleghi nell’intercettare sentimenti quand’ancora carsici e sempre uno indietro rispetto a chi quei sentimenti li provava e li trasformava in poesia contemporanea. La quale risulta ancora attualissima vista la quantità di citazioni social con cui le nuove generazioni rimandano a Minà e ai suoi figli.

Sempre nel mezzo Minà, lì dove un genitore e un giornalista devono stare, per fornire gli strumenti alla prole e ai cittadini affinché agiscano per il meglio. Minà ha cresciuto bene l’Italia. Se qualcosa è andato storto, è solo perché la sorte aveva in serbo altri programmi. E questo Minà davvero non lo poteva prevedere ma non per questo nei nostri ricordi conta di meno. E poi, si sa, chi viaggia nel tempo non può interferire con il naturale corso degli avvenimenti. Buon prosieguo di cammino, Gianni. Senza di te il nostro di percorso resterà muto.

Massimo Scotto Di Santolo

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AJAX-NAPOLI 1-6, LA CHIAVE DEL NAPOLI È IL DRIBBLING

Durante la telecronaca di Ajax-Napoli, finita 1-6, Caressa ha storicizzato l’atteggiamento tattico dell’Ajax, votato alla marcatura a uomo – da parte degli olandesi – di ciascun giocatore del Napoli.

Caressa ha ricordato, raccontando Ajax-Napoli che questo modo di comportarsi senza palla ha contagiato tutti. E che la sua primogenitura, secondo il telecronista romano, andrebbe ascritta al Gasp e alla sua Atalanta.

A prescindere dall’esegesi sul calcio uomo su uomo, c’interessa capire il perché il Napoli stia avendo tanto successo all’interno di questa omologazione.

Alla progressiva diffusione della moda di attaccare, in fase di non possesso, la figura degli avversari piuttosto che coprire le linee di passaggio, il Napoli ha risposto dapprima toccando il punto più basso della sua storia recente per poi concedersi spazio di rincorsa risalendo la china e riaccendendo l’entusiasmo della sua gente.

AJAX-NAPOLI E LA MAGLIA ROSA

Ajax – Napoli è una tappa che consegna ai partenopei la maglia rosa, sebbene il percorso di gara sia iniziato già un anno orsono.


ANGUISSA, ZIELINSKI E LOBOTKA E IL DRIBBLING

Anguissa, Zielinski, e Lobotka, ad oggi, rappresentano il migliore trio di centrocampo per capacità di evadere palla al piede il pressing avversario. L’unica vera soluzione alla marcatura ad uomo: il dribbling.

E i suddetti di dribbling ne hanno da vendere… insieme ai compagni Kvara, Politano, Lozano, Ndombele ed Elmas. Il Napoli dribbla: banalità che come il nero però non muore mai e si abbina con tutto.

Vale, tuttavia, anche dove tale gesto tecnico viene portato.

Anguissa e Lobotka lo portano come fossero veri Cordobes: in modo non ortodosso aspettano il toro fin dentro il proprio bacino e poi lo aggirano.

I due perdessero più agilmente la maniglia della sfera esporrebbero la squadra a severi rischi difensivi. Ma i due, non solo non la perdono mai, bensì sfuggono persino al toro aprendo praterie che altre squadre non possono permettersi.

Così i trequarti azzurri, raramente, subiscono il supplizio del raddoppio di marcatura.

Perciò, Anguissa e Lobotka sono la ragione in virtù della quale questa squadra sotto la guida di Ancelotti e Gattuso forte benché poco convincente sia diventata, già dall’anno scorso, un team solido.

Solidità smarritasi, una stagione fa, in Primavera a causa della cagionevole salute di cui sia Lobotka che Anguissa sono stati vittima. Il regista slovacco ha perduto 15 partite di campionato; il camerunense 13.

Il successo partenopeo, dunque, dipenderà – strettamente – dalla lontananza di entrambi i centrocampisti succitati dall’infermeria e dalla contestuale bravura di Spalletti nel farli riposare quando possibile.

Ambedue rappresentano il differenziale di un Napoli che al cuore del problema calcio ha piazzato due arterie che fluidificano in modo naturale pallone, defibrillando ogni patema difensivo e fibrillando ciascuna emozione offensiva.

La straordinarietà declina in incredulità allorché tra una sterzata e un cambio passo, un elastico e una ruleta, sti due mediani vincono pure gran parte dei contrasti e ciascuna palla contesa.

Vivono insomma uno stato di grazia che li rende complici del tempo: mai troppo prima né particolarmente tardi. Sono le rotaie che consentono al Napoli di correre giusto un secondo in anticipo sugli altri. Si spera così di non perdere alcun appuntamento, una volta che arriverà Maggio e toccherà vincere e non sorprendere.

MASSIMO SCOTTO DI SANTOLO

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IL REAL MADRID E’ PER LA 14ESIMA VOLTA CAMPIONE D’EUROPA

Contro ogni pronostico Carlo Ancelotti, alla guida di un sottovalutato Real Madrid, batte Psg, Chelsea, Man City e in finale il Liverpool e si laurea per la quarta volta campione d’Europa divenendo leggenda del calcio mondiale insieme al suo club e ai suoi giocatori.

1. IL GIOCO POCO SPETTACOLARE DEL MADRID

Trionfa una squadra, il Real Madrid, che all’Italia degli Europei del 2000, talmente prudente da scomodare il disgusto pubblico di Pelè, ha fatto le fusa. D’altronde Zoff e Ancelotti appartengono alla stessa generazione calcistica.

Il modo di giocare del Real pertanto è risultato abbastanza anacronistico. È parso di tornare, durante una singola notte parigina abbastanza lunga, ai tempi delle vittorie spiegate da Nereo Rocco: basta un cristo che para e un mona che segna.

2. I FUORICLASSE: COURTOIS IL DRAGO E BENZEMA KARIM THE DREAM

E il Real ne ha avuti due sublimi, cioè Courtois e Benzema. Due fuoriclasse che sono saliti in cattedra dagli Ottavi di finale Champions in poi e hanno obiettivamente portato a scuola la nobiltà del calcio europeo.

3. LA STRATEGIA DEL MADRID

Complicato immaginare, senza tali individualità, un ennesimo trionfo del made in Italy by Carlo Ancelotti. La finale è stata, non a caso, decisa su un tiro sporco di Valverde deviato in porta da Vinicius.

Così la voleva vincere Ancelotti e così l’ha vinta. Attendismo e centrocampo folto a togliere ritmo al Liverpool.

I reds, arrivati alla 63esima partita stagionale, avevano poca benzina. Quella che bastava per vincere questa Champions l’hanno messa in campo ma Courtois, con le sue parate, ha impedito che il motore avversario carburasse.

4. LA RINASCITA DI ANCELOTTI

Per la gloriosissima carriera bisogna comunque essere contenti per la vittoria di Ancelotti, il quale aveva intrapreso un viale del tramonto poco edificante tra Napoli ed Everton.

A Napoli, in particolar modo, non è stato messo nelle condizioni di rendere. Voleva trasformare l’ambiente e ne è stato fagocitato rischiando di compromettere il crinale finale della propria carriera. Pagò il non sapersi estraniare dalla melma in cui lo cacciarono società, tifosi e calciatori.

Con tutte le tare del caso, a Madrid, invece, ha dimostrato di avere ancora occhio per il calcio. Quello difficile si perda! Valverde centrocampista laterale. Vinicius un po’ ala e un po’ seconda punta.

Così, tatticamente, il “ragazzo” di Reggiolo ha sistemato la squadra e ha vinto coppa Europea e campionato. Le due ali prescelte per far quadrare i conti poi hanno deciso la finale di Champions.

5. JURGEN KLOPP, LO SCONFITTO

Colpo di coda vincente, alla stregua di un Drago, ai danni di Klopp dunque… uno, il tedesco, che per il calcio e per i pensieri che propone alla platea pallonara merita sempre un applauso a prescindere.

Si consolerà anche lui con due secondi posti prestigiosi e qualche coppa nazionale vinta. Stasera, forse, reo di aver puntato troppo su dei senatori dalla gamba un po’ spenta.

Pur tuttavia, per un Signore arcimilionario che ambisce soltanto ad essere ricordato post mortem come una brava persona, me quito la gorra señor! Ce ne sono ancora pochi di esseri umani al mondo anche solo preoccupati di risultare semplicemente perbene.

Massimo Scotto di Santolo

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LA ROMA VINCE LA CONFERENCE LEAGUE

Josè Mourinho, dato da molti per finito, riesce nell’impresa di portare il primo trofeo internazionale riconosciuto dalla Uefa nella bacheca dell’As Roma. La squadra della capitale italiana è divenuta la prima detentrice della terza e nuovissima competizione internazionale introdotta da Ceferin: la Conference League

1. UNA FINALE BLASONATA

Il bellissimo disegno del vignettista Mauro Biani fissa in modo molto rappresentativo l’euforia giallorossa che ha invaso la capitale d’Italia e quella d’Albania, Tirana. Dove si è svolta la finale della nuovissima competizione internazionale targata Uefa, la Conference League, la terza per ordine d’importanza e di creazione.

Le finaliste erano la Roma per l’appunto e il gloriosissimo Feyenoord. Una finale blasonata benché i contenuti tecnici non siano stati altissimi. Partita nervosa anche per i precedenti non simpaticissimi tra le due tifoserie, che ha impermalito il clima anche in campo.

2. UNA ROMA CAPARBIA

La Roma ha alzato i gomiti e alla fine è bastato proprio per questo per avere la meglio sul gusto per il bel gioco veloce degli olandesi.

Alla fine Mourinho trova sempre il modo, nella partita secca, di avere la meglio dei suoi rivali nonostante le sue trame offensive non siano esaltanti o almeno non eccellenti in modo continuativo.

E il modo lo scova tra le pieghe psicologiche dei match come fosse più un tennista che un allenatore di calcio.

3. MOURINHO IL CALCOLATORE

Quest’ultimo ab origine non definibile lo sport del diavolo, come invece lo è il tennis, né scientifico, come invece lo è il basket.

Eppure Coach Messina, pluripremiato allenatore di basket, una volta uscito dallo studio del tecnico portoghese, ha decontratto il suo pregiudizio baskettaro dopo aver verificato che di casuale nel calcio di Mou non c’è veramente nulla.

4. IL PROMETTENTE ARNE SLOT

Stavolta ne ha fatto le spese Arne Slot.

Allenatore olandese di sicuro avvenire, il cui lavoro ha già ricevuto riconoscimenti durante la sua esperienza all’Az. Ad Alkmaar, Arne, ha tirato fuori una vera e propria generazione di campioncini oggi sparsi per l’Europa: Boadu, Stengs, Wijndal, Koopmeiners… solo per citarne alcuni.

Slot ha ricevuto in dote anche al Feyer squadra altrettanto giovane. Da Senesi a Sinisterra, da Dressers a Kokcu, tutti ragazzi ammirati già da tempo in Olanda e ora da tutta Europa.

5. MOURINHO IL COMUNICATORE

Pur tuttavia, la loro gioventù ed esuberanza è stata travolta dalla marea giallorossa, ingrossatasi fino a divenire uno Tsunami sotto la splendida opera comunicativa di Mou, il quale ha reso tale finale di Conference una ragione di vita o di morte.

L’avesse persa, con un sudatissimo 6° posto in campionato, le ragioni della morte avrebbero prevalso su quelle della vita.

Quando però l’AlPacino degli allenatori, José da Setubal, entra nella modalità motivazionale di “Ogni maledetta Domenica”, è difficile che perda. Così quei centimetri che sono intorno a noi e la cui somma raccolta farebbe la differenza tra la vittoria e la sconfitta, tra il vivere e il morire, sono stati bruciati in un attimo, nel più classico dei carpe diem, da Zaniolo.

6. L’UOMO DELLA PARTITA: NICCOLO’ ZANIOLO

L’enfant prodige capitolino, talentuoso, bello e dannato, un po’ Panatta e un po’ Cassano, sfrutta un intervento bucato di un inadeguato centrale difensivo olandese (Trauner) e segna il gol decisivo.

Decisivo per il primo trofeo, riportato a Roma, dopo 14 anni; per il secondo trofeo internazionale della storia romanista dopo la risalente nel tempo Coppa delle Fiere.

7. UN TROFEO PER INIZIARE UN CICLO DI ALLENATORI PORTOGHESI?

Roma ha un nuovo imperatore e al suo seguito i centurioni… sebbene i meriti e le corone d’alloro se le intesti Mou, la prima pietra di quel che per i giallorossi si spera sia l’alba di un nuovo impero (born in the Usa) l’ha posata un altro portoghese, Daniel Fonseca.

Uomo di mondo, di stanza in Ucraina, coach sottostimato, che ha restituito ad un gruppo la dignità e l’orgoglio di combattere per una maglia individuandone modulo e posizioni che il vincente José ha ottimizzato.

Un pensiero doveroso se la squadra per 8/11 sua festeggia mentre Fonseca e la sua famiglia son dovuti scappare dagli affetti più cari in fuga da una guerra insensata.

Massimo Scotto di Santolo

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PREVIEW: GLASGOW RANGERS – EINTRACHT FRANKEFURT

La finale di Europa League di quest’anno ha un sapore antico. Si sfidano due squadra dal valore nostalgico. Da una parte, il rinato dopo il fallimento Glasgow e dall’altro i tedeschi, grandi programmatori di calcio, del Francoforte. Tre amici scozzesi, di fede Rangers, a 50 anni di distanza si sono dati appuntamento per una nuova finale europea in terra di Spagna.

1. IL FALLIMENTO

È Fallito. Non c’è più nulla da fare. La Scozia così restava orba, priva della sua essenza calcistica, del the old firm derby. Glasgow Rangers, i protestanti, da una parte e il Celtic, i cattolici, dall’altra. Questione di religione, di fede, in quali colori credere. Entrambi gli stadi di Glasgow gremiti.

Si canta, si canta in onore di un’appartenenza e per ricordare alla vicina Inghilterra che la Scozia non avrà conquistato l’Europa come i club della Regina ma che il derby più antico e vero lo avrà sempre lei. E poi, improvvisamente, più nulla.

I Rangers sommersi dai debiti spariscono dal calcio che conta. E tutte quelle storie, tutti quei trofei divisi tra loro in blu e i rivali in bianco verde, risucchiate in un presente bastardo. Il passato di entrambi i club più famosi di Scozia è stato glorioso. Fatto anche di finali di Coppe di campioni o Uefa o Coppa delle coppe.

2. IL 1972

A noi però interessa il 1972… Lou Reed cantava “Perfect day”.

E 4 amici scozzesi, che ricordavano più i Beatles che tifosi rangers, si recavano a Barcellona – stadio Camp Nou – per la finale di Coppa delle Coppe tra Glasgow e Dinamo Mosca.

Avrebbero vissuto un giorno davvero perfetto: durante la notte e lungo le ramblas era tutto un risuonare “Follow Follow We Will Follow Rangers Everywhere Anywhere” mentre nel ventre del campo, dentro gli spogliatoi, il capitano scozzese John Greig fumava e si avvinghiava alla coppa persa già in due occasioni precedenti.

Poi più nulla di pari passo con la contrazione tecnica del calcio scozzese, il quale, invece, fino all’inizio degli anni 80 vantava buonissima competitività sia dei club che della Nazionale.

3. IL 2008: ULTIMA GIOIA EUROPEA PER I PROTESTANTI

Un sussulto insperato e terminale nel 2008. I Rangers centrano la finale di Coppa Uefa. Per l’ennesima volta affrontano una squadra russa, lo Zenit San Pietroburgo, ma stavolta perdono.

Non c’è nulla da festeggiare e da cantare. Le orecchie basse degli sconfitti diventano umiliazione quando 4 anni dopo il club annuncia il fallimento. Essere costretti ad una lenta risalita.

4. LA RISALITA

Ma Glasgow, a dispetto della sua intrinseca uggiosità, sa anche essere la casa del sole nascente come cantavano con successo il gruppo “The animals”.

8 anni dopo il crac, in modo tutto fuorché casuale se uno crede a certe dinamiche oscure del nostro sistema solare, il Glasgow è di nuovo in finale. Finale di Europa League, s’intende.

Esattamente al ricorrere del cinquantennale dall’ultimo trofeo vinto dai Rangers in campo internazionale. Alla guida dei Royal blu c’è uno che il Camp Nou, e non soltanto quello, lo ha arato: Giovanni Van Bronckhorst; il quale ha fatto in tempo anche a diventare idolo dell’Ibrox Stadium. Terzino sinistro olandese dalla grande carriera e ora allenatore del Glasgow Rangers.

La squadra non è la favorita, neanche della finale, ma ha messo in fila, tra le mura amiche di Ibrox, tutte le competitors più accreditate incontrate sul suo cammino.

5. IL GIOCO DEI ROYAL BLUES

Il gioco è semplice. Si spinge sulle fasce fin quando non si sfonda palla al piede o con cross puliti non si trova la testa dell’attaccante. Ci pensano le ali profondamente britanniche ma soprattutto i terzini.

Un sinistro e un destro le cui proprietà balistiche incantano: un croato, Barisic, e un inglese, Tavernier. Quest’ultimo, ormai trentenne, tira punizioni e calci di rigore ed è il difensore più prolifico d’Europa con 18 gol e 16 assist.

In mezzo al campo, quando ne ha e sta bene, Aaron Ramsey, cioè il corridore campestre più forte della storia del calcio con altri muscoli e minore propensione a frequentare l’infermeria.

Davanti gli scozzesi si concedono il lusso di avere El bufalo Morelos. Un attaccante dal baricentro basso ma dalla possente struttura e dal carattere del tutto incontrollabile, un idolo delle folle, che però ahinoi non sarà presente in finale per colpa di un infortunio muscolare.

6. L’AVVERSARIA, EINTRACHT FRANCOFORTE

La finale è del tutto insospettabile contro un’altra cenerentola, l’Eintracht Francoforte.

Squadra tedesca dalla programmazione calcistica invidiabile che ha eliminato un certo Barcellona a casa loro, lì dove il Glasgow ha trionfato per l’ultima volta in campo europeo.

Sparring partner, l’Eintracht, perfetto coprotagonista di una sfida sportiva nostalgica, molto anni ’70, di quando il calcio era un’eterna sorpresa nei suoi risultati e il mondo ancora diviso in due da una cortina polverosa di piombo e di gesso e sui muri color ocra qualcuno ci poteva rimanere secco.

Il proscenio della sfida è affidato nuovamente alla Spagna. Stavolta Siviglia, stadio Pizjuán. E per il dopo partita vincitori e vinti possono stare tranquilli: le stelle son le stesse di cinquant’anni fa e vanno a dormire tardi in Andalusia come in Catalogna.

7. I NOSTRI RAGAZZI

Chi manca?

I nostri 4 ragazzi! Che avevamo lasciato, giovani, a Barcellona mentre si godevano l’ebbrezza di una prima vittoria internazionale ma, inconsapevolmente, anche l’ultima.

In realtà ci sono anche loro. Eccoli qua in foto, oggi più di ieri, con la stessa voglia immutata di cambiare le idee alla Terra accanto alla propria rinata squadra.

A questo giro però sono in 3. Eh già, uno non c’è più… si è impiegato in banca. Si è arreso! Ma stasera ci sarà un popolo sugli spalti che combatterà anche per lui.

Massimo Scotto di Santolo

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IL MILAN VEDE IL TRICOLORE

Il Milan di Stefano Pioli non si ferma più, vince come una schiacciasassi e si avvicina a grandi passi ad uno storico per quanto insperato tricolore.

1. UNO SCUDETTO INATTESO

Il Milan veleggia verso uno storico scudetto. Storico perché sognato ma non fino in fondo programmato. Storico perché verrebbe vinto da non favoriti, nemmeno in prima fila accanto alla macchina in pole position, sicuramente la prima della seconda fila.

2. DAVIDE CALABRIA: IL CAPITANO

Il Milan ha trovato il suo Omero stagionale, che cantasse le sue gesta e accalcasse quanta più attenzione possibile intorno alla causa rossonera, nel cantore Rafael Leao.

Le muse ispiratrici del racconto, tessuto in vesti tricolore dall’ala porteghese, sono interpretate dall’anima del Diavolo, tutta italiana, un po’ dirigenziale e un po’ di campo.

Il talento di Leao è stato aspettato alla pari di capitan Calabria. Presente quando in salute. E la cattiveria con cui gioca sopperendo a limiti fisici e tecnici fa impallidire il ricordo che il popolo calcistico italiano aveva di lui. Ossia di un terzino completamente in confusione e spaventato da un severo San Siro pre-Covid.

3. IL NUOVO DE ROSSI: SANDRO TONALI

Al suo fianco, nonostante la giovanissima età, Alessandro Tonali. Rossonero di fede anche se cresciuto in quel di Brescia. Lui si ispira a Gattuso ma alle dipendenze delle rondini di Cellino è un regista di grande temperamento atletico e caratteriale.

Il Milan lo acquista con prestito e riscatto. Sbarca a Milanello e per un anno sembra travolto da un’emozione troppo grande da gestire. Alla fine la dirigenza milanista non si fa impressionare dalle prestazioni spaurite, punta tutto sull’impegno e la diligenza dimostrata dal ragazzo, sulla sua indiscutibile appartenenza.

Lo riscatta; e appena la transazione va a buon fine, Tonali cambia, cambia tutto del suo gioco, descrivendo lui stesso a suon di prestazioni il suo ruolo. Calciatore che ricorda terribilmente il primo Daniele De Rossi. Di spada e di fioretto.

Davanti alla difesa ma anche inserimenti, meno fisici del Daniele romanista ma più carsici (e insidiosi) da mezz’ala alla Perrotta che non è. E sotterraneo è rispuntato fuori dall’erba, quando lo scudetto andava decidendosi, segnando un paio di gol che molti amatori della sfera in cuoio avrebbero voluto segnare mentre piedi e passioni impazzavano come ormoni durante l’infanzia e l’adolescenza.

4. GLI ARCHITETTI: ZVONIMIR BOBAN

E se Calabria ora dà il tono, il là all’orchestra, mentre Tonali esplode i do di petto rifinendo il lavoro di lotta dei compagni e le stesure musicali del direttore Leao, chi quel componimento lo ha buttato giù su carta tra notti insonni e ricordi nostalgici siede dietro una scrivania: fa di nome Paolo e di cognome Maldini.

Da calciatore, da bandiera dello stesso Milan, ha vinto tutto pur definendosi durante il periodo pandemico, interpellato in una live Instagram di Bobo Vieri, il più grande perdente di tutti i tempi. Lui al Milan è stato richiamato senza alcuna esperienza dirigenziale da un croato.

Un calciatore croato che vedeva la vita in modo sostanzialmente diverso da una persona normale. Pertanto, la sua visione di calcio non poteva che essere esagetaratamente sensibile e quindi solitaria, incompresa. Questo croato si chiama Zvonimir Boban e con Paolo qualcosa in campo, con indosso la maglia rossonera, ha vinto. E’ lui che ha architettato un Milan in odore di scudetto.

Poi ha ringraziato tutti e se n’è andato con la stessa calma e consapevolezza, me lo immagino, in forza delle quali attraversava l’Europa in macchina da Milano negli uffici Sky a Nyon negli uffici Uefa e infine Zagabria presso casa sua ascoltando la divina commedia di Dante. Chissà se recitata da Gassman… noi in Italia l’abbiamo amata con quella voce lì.

5. GLI ARCHITETTI: PAOLO MALDINI

Boban è andato via, ha lasciato due o tre legati.

Maldini, come ai tempi dell’esordio in maglia Milan sotto la guida di Liedholm, rimasto lì precoce a dover nuotare o affogare senza alcun insegnamento se non quello di giocare da predestinato qual è, ha composto una meravigliosa melodia diventando in un amen il più apprezzato dirigente sportivo italiano per aplomb e lungimiranza.

Si perché quei legati balcanici, lui li hai tenuti a sé stretti: si è fidato di quel gruppo che prima della pandemia sembrava fosse buono per l’attuale Conference League e lo ha trasformato, assumendo Ibrahimovic, in una sporca dozzina.

Quant’è vero che gli attacchi vendono i biglietti e si prendono i titoli dei giornali, mentre le difese vincono i trofei. E Paolo di quelle difese è stato il più grande interprete della storia del calcio. In giacca e cravatta ha solo continuato un percorso già tracciato.

Massimo Scotto di Santolo

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GENOA QUASI IN B: ONORE A BLESSIN

Il Genoa perde il derby della lanterna, la stracittadina di Genova, ed è condannato dall’acerrima rivale della Sampdoria ad una quasi sicura retrocessione.

1. IL DERBY DELLA BEFFA

Probabilmente il Genoa andrà in B, nel modo più amaro possibile, ossia perdendo un derby salvezza contro la Sampdoria. Sconfitta beffarda per 1-0. Nessuno poteva immaginarlo. Gli eterni rivali blucerchiati, superiori nelle individualità, arrivavano da una crisi nera; una crisi di gioco e di convinzione. Coach Giampaolo sembrava ormai il prete chiamato a procedere con l’estrema unzione.

Nessuno poteva immaginare nemmeno il finale drammatico: Criscito, eterno capitano rossoblu, che sbaglia il rigore dell’1-1 durante i minuti di recupero. E sarebbe bastato anche un punto alla compagine genoana per cullare ancora speranze di salvezza.

2. CHI E’ ALEXANDER BLESSIN?

Se però c’è stato un ultimo ballo, un ultimo ribollire di contrastanti emozioni per un gioco così banale e allo stesso tempo globale, la gradinata rossoblu del Grifone lo deve al signore in foto: Alexander Blessin.

Il quale, pur non senza qualche defaillance, ha rianimato con il defibrillatore un ambiente morto e un’armata Brancaleone. Tecnico tedesco, giovanissimo per gli standard del calcio italiano, scuola Redbull. Kloppiano convinto.

Per vincere nel calcio professionistico bisogna portare ai massimi livelli la poesia e l’agonismo del calcio dilettantistico. Questa potrebbe intendersi come sua massima. Furore agonistico, caos organizzato… mai mollare.

3. BLESSIN, EROE ROMANTICO

Blessin ha creato in pochissimi mesi un ambiente da salvezza lì dove ormai c’era solo mesta rassegnazione alla retrocessione.

E dopo non aver centrato l’obiettivo, che sull’onda di un entusiasmo contagioso pareva ormai alla portata, Alexander rimane in tribuna con moglie e figlia, come uno di noi, a ragionare sui perché della sconfitta, sugli errori di un obiettivo difficilissimo e sfumato sul più bello nonostante ci credessero tutti a dispetto dei risultati conseguiti di giornata in giornata.

Rimane sugli spalti di Marassi a prendersi la brezza marina addosso, la tristezza dei marinai intorno e a condividere con loro la mulattiera del mare verso nuovi e futuri orizzonti. Tutti possibili e realizzabili con la nuova proprietà, quantomeno stabile dopo i disastri pluriennali di Preziosi.

4. BLESSIN E L’ITALIA

Se dovesse rimanere alla guida del Genoa anche in B, sembrerebbe proprio che il calcio italiano abbia acquisito un nuovo (positivo) personaggio, al quale ha regalato lo stesso football tricolore l’amore per questo gioco.

1989, Neckarstadion di Stoccarda. Stoccarda – Napoli 3-3. Sulle tribune tinte d’azzurro emigrante e orgoglioso si canta: porompompero-però-porompompò. Blessin è lì con loro, con i partenopei, guarda attonito l’amore per questo sport e il suo nunzio vincere la Coppa Uefa. Canta gli stessi Cori vesuviani e decide di diventare un mister per gioco e per passione.

Infine la vita, maliziosa, sembra avergli regalato consacrazione proprio in un’altra città di mare, Genova, fino a poco tempo fa gemellata con quella Napoli che, quando conviene, sussume l’Italia tutta. Blessin-Genoa è una storia che gradiremmo continuasse ad esistere anche in serie B, grazie!

Massimo Scotto di Santolo

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NAPOLI-SASSUOLO 6-1: OCCASIONE PERSA

Il Napoli batte il Sassuolo nel silenzio di uno Stadio Diego Armando Maradona. La goleada contro i neroverdi dimostra che avevano ragione i tifosi. La squadra poteva vincere lo scudetto ma non ne era convinta abbastanza.

1. UNA CHAMPIONS GUADAGNATA O UNO SCUDETTO PERSO?

Vittoria dal retrogusto amaro. Stagione dal sapore particolare: il Napoli non era la squadra più forte ma i suoi valori non sono apparsi nemmeno così distanti dalle squadre favorite. L’Inter e la Juventus per lignaggio e profondità di rosa; il Milan per dedizione e continuità di gioco.

Gli azzurri lo scudetto potevano vincerlo. Fattore psicologico determinante in negativo? Può darsi. Sta di fatto che l’allenatore più vicino a vincerlo, Sarri, lavorava in modo maniacale su gambe, gioco e testa dei calciatori.

Castelvolturno era un bunker, anche abbastanza blindato, e poco prodigo verso l’esterno. Una caserma.

2. IL PIGLIO DI SPALLETTI

Gli allenatori in grado di avere questo appiglio sono pochi.

Tra questi non rientra Spalletti che in conferenza stampa di presentazione dichiarò di non dover motivare nessun giocatore, perché il calciatore è un professionista e quando indossa certe maglie deve sapersi motivare da solo.

Legittimo crederla così, sia chiaro! Tuttavia, per questo, le società cercano di allestire una squadra dirigenziale che abbia la funzione di evitare cali di concentrazione o prestazioni timorose. Ma anche in quel caso bisogna saper scegliere.

Non basta prendere una vecchia gloria o un dirigente qualsiasi per risolvere il problema. Non tutti sono Marotta, per fortuna, o Maldini, purtroppo.

3. LA RICONFERMA DI SPALLETTI

Spalletti, perciò, merita di essere confermato, anche solo per aver raggiunto l’obiettivo agognato dalla società, ossia la Champions League.

Va però assecondato sul mercato e pungolato maggiormente dalla stampa: perché da Venezia – Napoli 0-2 in poi mica si è capito come volesse giocare e sfruttare Osimhen. O meglio come volesse far giocare il Napoli.

È stata una stagione da due facce: alcune partite giocate alla stregua della prima Roma di Luciano, quelle di Totti falso nove contornato da Perrotta, Taddei e Mancini; altre alla stregua del Napoli di Edy Reja ma senza la cattiveria adeguata.

Chissà… qual è allora l’identità con cui Spalletti vuole giocare al pallone? Fare dell’aggressione episodica alla seconda palla, abbandonata da Osimhen tra le linee di difesa e centrocampo, un must oppure mostrare al #DAM lo scintillante palleggio d’inizio stagione o di Gennaio o ancora della partita interna contro la Lazio, di oggi pomeriggio o del primo tempo contro il Sassuolo ma al Mapei Stadium?

4. LE DUE SOLUZIONI

Nel primo caso, occorre rendere centrale il centravanti nigeriano e non cederlo davanti alle offerte mirabolanti e forse ridisegnare la squadra sotto una stesura più “contiana”.

Nel secondo caso, allora, si può anche pensare di rinunciare a Victor, principe del Wakanda, per ricercare qualcosa che questa squadra già conosce il possesso palla… a costo di morire nella bellezza.

In entrambi i casi, a prescindere dal risultato stagionale, l’uomo in foto si è guadagnato a suon di gol la probabile riconferma. Uno dei pochi per comprensione del calcio a poter star bene in entrambe le strade tecniche da intraprendere. Va per i 36 e ormai i suoi contratti, quelli di Dries Ciro Mertens, sono annuali.

5. SPALLETTI VS MERTENS

Spalletti nel dubbio se rimpiangere le troppe panchine a cui lo ha costretto ha scelto di polemizzare ai microfoni Dazn circa le dichiarazioni del belga nell’immediato post partita.

Quest’ultimo ha derubricato la stagione in una grossa delusione. Si poteva vincere, secondo lui ma anche secondo Giovanni Di Lorenzo. Il mister ha in mano lo spogliatoio e i suoi pensieri? Ne asseconda prospettive ed auspici? Si profila un nuovo Totti e Icardi bis? Se la tensione esalta Spalletti, perché no? L’anno in cui fu definito “piccolo uomo” da Ilary Blasi ne mise a referto 87 di punti.

6. ALTRO INTERROGATIVO

Altro grande interrogativo è il seguente: se una volta formata una squadra (sul fatto che sarà forte pochi dubbi) omogenea, si potrà finalmente puntare al tricolore o quantomeno costringere la Federazione ad intervenire con arbitraggi chirurgici per tagliare agli azzurri le gambe?

Spero che Di Lorenzo e Mertens diano seguito alle proprie parole e non dimostrino sul campo le ragioni di Spalletti: meglio festeggiare la Champions che è andata di lusso.

Quest’anno, infatti, la squadra ha tolto al tifoso napoletano anche l’atavico vittimismo, visto che rispetto al recente passato non sono stati necessari nemmeno gli arbitraggi sfavorevoli e contrari per fermare il cammino partenopeo!

Questa qualificazione Champions non lascia nulla da festeggiare e nulla per cui piangere. Per una volta è veramente una Napoli che pensa “al di là del risultato”.

Massimo Scotto di Santolo

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KVICHA KVARATSKHELIA

Il primo acquisto della stagione 2022-2023 del calcio italiano è del Napoli. Infatti, il calciatore georgiano Kvicha Kvaratskhelia è ufficialmente un nuovo giocatore azzurro!

1. UN NOME IMPRONUNCIABILE

Innanzitutto, è opinione diffusa in quel di Napoli citàà che sia opportuno trovargli un soprannome. ADL, che lo ha annunciato nel primo pomeriggio, ha proposto Giorgio. Piacerebbe, invece, Gennaro.

2. CHE TIPO DI GIOCATORE E’?

Che giocatore è? Noto appassionato, lo scrivente, di calcio russo e georgiano, più o meno come Battiato dello spiritualismo indiano, può dirvi che è un’ala sinistra destrorsa. Dribbla qualsiasi cosa trovi sul suo cammino, compreso talvolta sé stesso.

Transfermarkt, che invece archivia i dati anche del campionato lettone, dà idea di un giocatore funambolico ma non ancora troppo incisivo. Pochi gol e pochi assist. Ragazzo alto abbondantemente sopra il metro e 80 sembra dotato di un ottimo tiro, che spesso mette da parte per dribblare un altro po’.

Non è un calciatore che ama andare senza palla, anzi, piuttosto, ce ne vorrebbero due: una per lui e un’altra per i restanti 21 calciatori in campo. Tuttavia, in campo aperto ha una rara velocità e progressione. Se avrà modo di mettersi in mostra, ci si accorgerà che è un superatleta. Gambe alla mennea, caviglie alla Nureev quando si solleva sulle punte per tentare il dribbling.

3. L’ACQUISTO

Di proprietà del Rubin Kazan, si è svincolato sotto pressione del governo georgiano, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, per concludere la stagione alla Dinamo Batumi – la Juventus georgiana – da cui il Napoli lo ha acquistato per un carico di palloni e un paio di sacchi di sabbia.

4. CHI RICORDA?

Il look e le basette lunghe ricordano, per i più acculturati, gli intellettuali ottocenteschi, mentre, per i più calciofili, Gigi Meroni. Fantasista granata smaccatamente sessantottino, pittore, e stravagante fantasista. Soleva attraversare le strade di Torino con una gallina al guinzaglio e una compagna al suo fianco sposata e in attesa di annullamento del matrimonio. Scandaloso, Gigi, fuori e anche dentro il campo dove era una spanna sopra tutti.

Destinato a diventare leggenda del calcio italiano e della Torino granata, morì prematuramente investito da un auto il cui conducente era un giovane borghese dell Torino bene; “l’omicida” diventerà poi presidente del Toro in età adulta. Gigi per la sua brevissima seppur iconica vita e carriera venne soprannominato la farfalla.

Anche per come volava leggiadro ed esteta sul campo a dipingere su tela pensieri e traiettorie che obiettivamente solo lui vedeva.

Che Gennaro, Giorgio o semplicemente Kvicha possa divenire la farfalla azzurra.

Massimo Scotto di Santolo

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Mancini, conferma coraggiosa ma logica non sbagliata

Alla fine la Federazione nella persone del Presidente Gravina è riuscita a convincere il Mancio. Il ct attualmente campione d’Europa ma non qualificato ai mondiali resterà in sella della nazionale almeno fino ai prossimi europei del 2024.

Le sue ultime dichiarazioni, che confermano le indiscrezioni giornalistiche, addirittura sono proiettate ai mondiali del 2026. La scelta tecnico-tattica di confermare il Mancio è coraggiosa ma non, sotto il profilo logico, di per sé sbagliata. La prima considerazione da farsi vara il famoso principio di asseverazione previa negazione. Se non è una cosa, allora lo è l’altra. Mancini ha vinto nuovamente le primarie federali di Coverciano, perché nessuno dei potenziali competitors era all’altezza del ruolo di Ct azzurro.

MANCINI HA TOPPATO GLI ULTIMI 6 MESI


Gravina potrà anche giudicarsi bravo nel far tollerare al tifoso medio italiano gli scempi arbitrali e gli svariati tentativi (a)legali di portare acqua ai propri mulini dei vari club, ma supponiamo non a tal punto da vendere il riarmo dei fasti appena ingiallitisi con scelte (s)comode come Gattuso, Pirlo o il duo Cannavaro-Lippi.
Chiunque dei succitati avrebbe rappresentato voce del De profundis sulla casacca azzurra.
A Mancini piace vincere facile; a Gravina piacciono le scelte semplici.

Mancini, come scritto in uno scritto precedente, ha toppato del resto 6 mesi, da Settembre 2021 a Marzo 2022, in 4 anni.
Anche se il dato cronachistico ricorda a noi tutti che in Ottobre (2021), l’Italia imponendosi sul Belgio agguantava medaglia di bronzo nella ridondante competizione della Nations League.
Pur tuttavia, i 3 anni precedenti, dal 2018 al 2020, sono stati un crescendo di gioco e risultati.
L’Italia si è addirittura issata in cima alla classifica delle nazionali con il maggior numero di partite consecutive senza sconfitte.

LA RICONOSCENZA VERSO UN GRUPPO COTTO

Mancini ha dunque pagato sulla propria pelle l’errore (molto grave) della riconoscenza verso un gruppo, più che vecchio, al momento apparso fin troppo cotto; al rispetto del quale, pertanto, ha immolato un traguardo tutto fuorché secondario nelle dinamiche politico-sportive dell’Italia.

Bonucci, Chiellini, Emerson, Barella, Jorginho, Insigne e Immobile sono, da tempo, in difficoltà atletica e fisica.
Comprensibile visto lo sforzo profuso nel giocare la stagione scorsa e considerata l’età di alcuni di loro.
E, infatti, i suddetti di certo non stanno brillando presso i propri club.

RIPARTIRE DA DOVE CI SI È FERMATI

Un errore seppur grave può essere perdonato all’ex bandiera Doriana, purché ricominci da dove si è fermato: dalla proposta di gioco e dalla freschezza di mente e di gambe di chi scende in campo.
Conditio sine qua non per avere una nazionale competitiva.
E, per la cronaca, non è colpa né del Mancio né dei calciatori oggi alla gogna mediatica se mancano i campioni in grado di risolvere la pratica mondiale al di fuori dello spartito tattico (grazie al quale nell’estate scorsa si è vinto un impensabile europeo).

MANCA LA BASE DI MATRICE SPAGNOLA

Che manchi una base simile a quella spagnola, è vero.
I Gavi, i Pedri, i Ferran Torres, Nico Gonzalez, Yeremi Pino, Eric Garçia etc. dalle nostre parti non si vedono.
Che però siano assenti basi tecniche per aprire un quadriennio altrettanto competitivo, questo è falso.
Già esistono i modelli tattici e tecnici da innestare sul nuovo ciclo per renderlo immediatamente pronto.

Se a Wembley si è trionfato riproponendo una squadra di matrice sarrista, per esaltare gli uomini di maggiore talento a disposizione (Insigne, Verratti, Jorginho, Emerson e Bonucci), ai prossimi europei e alle qualificazioni mondiali il paradigma risiede su quanto i club di vertice della serie A stanno mostrando in termini di proposta offensiva: dal Milan all’Atalanta, dalla prima alla 5 del campionato, tutti alla ricerca della punta nel minor tempo possibile.

Quanto sarebbe servito spiazzare la Macedonia con rapide transizioni o con recupero palla veemente, forzando anche giocate e posizioni a rischio di compromettere qualche equilibrio difensivo in campo aperto? Legati e principi strategici che avrebbero maggiormente esaltato, inoltre, il miglior bomber italiano, quel Ciro Immobile la cui verve realizzativa ha piegato proprio quel possesso palla sarrista di predominio e raziocinio di cui Mancini si è fatto vincente emulatore.

IL TALENTO NON MANCA

E infine ci sono i ragazzi sparpagliati tra le metropoli e la provincia del nostro calcio. Pronti a dare un contributo fattuale ai provati polmoni dei più anziani senatori.
Okoli, Casale, Romagnoli (che giovane non è ma meglio dell’ormai consunto Chiellini finalmente sostituito da quel fenomeno di cognome Bastoni), Scalvini, Calabria (inspiegabilmente tenuto fuori dopo il forfait di Di Lorenzo), Bellanova, Lovato, Altare, Udogie, Parisi, Tonali, Frattesi, Fagioli, Gaetano, Raspadori, Scamacca, Zaccagni (altro tribunato senza motivo), Caprari (che giovane non è ma se continua a giocare così in quel di Verona non può essere ignorato), Castrovilli, Di Marco (come terzino e non certo difensore centrale), Ricci, Pobega, Faraoni, Carnesecchi etc… nessun fenomeno ma tanti buoni giocatori.

MOLTIPLICARE IL TALENTO ATTRAVERSO IL GIOCO

Mancini ha già mostrato di moltiplicare attraverso il gioco il talento.
Quella è la strada.
E, da un punto di vista letterario, questa versione underdog non dispiace nemmeno.
Tocca solo che si torni a farlo e senza pregiudizi,. Cioè tenendo conto di quanto il campionato per forma racconti dei vari protagonisti.
A queste condizioni e per le ragioni già espresse si può apprezzare pure la scelta del rinnovo.

MASSIMO SCOTTO DI SANTOLO

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