Paganese-Foggia 1-4. Zeman e la folle bellezza della ragione

Bisogna essere matti o sin troppo razionali per preferire un apparente anonimo turno infrasettimanale di C all’ottavo di finale di ritorno dell’ultima formazione italiana rimasta in Champions.

Serve essere profondamente razionali o sin troppo matti per togliere dal campo a poco più di mezz’ora dalla fine, con un risultato da recuperare, il centravanti sul quale si fonda gran parte del potenziale offensivo di una squadra, avvicendandolo con colui che, dal momento in cui ha messo piede a Foggia, ha rappresentato per il pubblico un oggetto misterioso o poco più. 

Ferrante fuori, dentro Turchetta con la Paganese appena passata in vantaggio con un tiro di Tommasini, poco più di un passaggio al portiere, sul quale l’estremo difensore stesso (il rientrante Alastra, out da novembre) si infortuna e non può intervenire. Un film già visto allo Zaccheria, quando fu Volpe ad essere infilato da Matteo Brunori, centravanti del Palermo, per il gol che valse ai rosanero il provvisorio 1-1. 

Non sappiamo se Zdenek Zeman ci ha visto, prima degli altri, un revival. Ma se cabala e razionalità estrema sono concetti che vanno a braccetto, si può dire che il 4-1 finale, oggi come allora, era scritto nella pietra. Un risultato, quello maturato sull’erba del “Marcello Torre” di Pagani, che porta in tutto e per tutto la firma di un uomo che si avvia a gonfie vele verso i 75 anni, che oggi come a Cinisi non conosce il concetto di copertura preventiva. Non stiamo parlando di campo, figuriamoci! Ma sfidiamo chiunque, a Foggia e dintorni (eppure dovrebbero conoscerlo bene), a non aver quantomeno strabuzzato gli occhi quando sul tabellone luminoso dei cambi è apparso il numero 9 di Alexis Ferrante. Quel cambio lo fa solo chi di fischi, pernacchie e insulti non se ne importa una cicca di Marlboro light. 

Eppure il vecchio stregone sa il fatto suo. E non basta affidarsi ad un corso/ricorso favorevole per vincere le partite. Magari aiuta – senz’altro! – ma le partite vanno lette. E se parliamo di una gara in cui l’unico limite palesato da un Foggia in controllo è stato il non riuscire a variare le soluzioni offensive dalla trequarti di campo in su, cercando sin troppo insistemente un Ferrante tornato dopo Picerno in gran forma, ecco che occorreva variare tema. Turchetta va a destra, a costruire calcio attraendo gli avversari sul proprio lato, Merola si accentra trovando terreno più congeniale per sè e per le sue caratteristiche.

A sinistra si formano praterie per gli inserimenti e partono i fuochi d’artificio: Nicolao, bum! Rocca, bum-bum! In tre minuti, ribaltata partita e inerzia. Finito il dovere, inizia il piacere: un monologo rossonero di triangoli, attacchi alla profondità ed inserimenti dentro ed alle spalle della linea difensiva di un avversario impotente, in attesa di un triplice fischio che per i rossoneri aveva il sapore del richiamo di una mamma che urla perchè è pronta la cena, con un “Uffà!” di controcanto a sugellare il momento.  

Non sappiamo se di svolta si tratta. Questa squadra, dal punto di vista tecnico, ha dei limiti. Limiti compensati dalla profonda funzionalità di alcuni elementi al modo di fare calcio di Zeman, dalla caparbietà di altri e della volontà del resto di una truppa che ha da sempre marciato compatta, caratterizzandosi per una continuità di risultati interrotta solo dal Covid. Tre sconfitte consecutive in gare in cui si faticava a mandarne in campo undici. Tre gare che hanno determinato la classifica attuale, che poteva essere differente e con prospettive ancor più rosee in vista di un rush finale dal profumo di Primavera. Sono aspetti che avrebbero dovuto essere chiari, ma i feedback social, temperatura di un ambiente che cambia idea su tutto non da una domenica all’altra, ma da un minuto all’altro, ne impongono un memento. 

Se il Vegliardo stia costruendo il capolavoro finale è presto per dirlo. Troppe cose dovrebbero girare nella giusta direzione e i segnali (striscione della Curva Nord dello Zaccheria su tutti) non lasciano presagire nulla di buono. Ed in questo contesto che a fare la differenza dovrebbe essere, prima ancora delle programmazioni, la chiarezza delle intenzioni su quanto andrebbe fatto e come. 

Intanto ci sono almeno sei partite. Gustiamocele piano piano. Del doman non c’è mai certezza.

PAOLO BORDINO

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Roma-Napoli, nei giallorossi comanda il gioco, negli azzurri non si sa chi.

Roma-Napoli è stata una partita simmetrica. Simmetria, in tal caso, intesa nel veder fronteggiarsi sul terreno di gioco due squadre che hanno vissuto eventi esterni abbastanza simili quest’anno, tra decisioni arbitrali contestate ed infortuni che hanno reso il cammino alquanto incidentato.

Roma-Napoli ha un però che consiste nella diversa reazione di queste due squadre ad eventi esterni. Da un lato Paulo Fonseca – di cui non se ne parlerà mai troppo bene – che ha ovviato all’emergenza rendendola una risorsa. E l’ha fatto dando vita ad un progetto tattico nuovo dal punto di vista dell’inquadramento tattico, senza derogare ai propri princìpi di gioco.

LA CHIAVE DI SVOLTA DELLA ROMA DI FONSECA

La chiave di questa nuova fase romanista è senz’altro Mancini. Impostato come “1” davanti alla difesa nel basculante 4-1-4-1 in non possesso, l’ex atalantino assume la duplice funzione di schermo e di prima impostazione, liberando una linea per Veretout e consentendo a Pastore di attaccare gli spazi intermedi senza preoccuparsi troppo di interdizione e filtro.

Ma la bellezza di questa Roma non è solo il fatto che “sta a giocà cor core!”, ma deriva dal fatto di riuscire ad interpretare uno spartito tattico in cui tutti iniziano a ritrovarsi, gestendo a perfezione i tempi del match, a partire da quelli frettolosamente bollati come bidoni (Kluivert) a coloro che sono arrivati nella capitali con l’aura del bollito ma che stanno disputando un torneo in versione-Van Dijk. Parlo di Chris Smalling, ma lo si è capito. E consentitemi di sottolineare che il leader della Roma è il suo gioco, oltre ad un vero capitano come Edin Dzeko, cosa che ha dimostrato ieri. E inoltre: quant’è bella la Roma senza capi, capetti, capuzzielli e semidei!

IL NAPOLI DI ANCELOTTI SENZA GIOCO E REAZIONE

Dall’altro c’è il Napoli. Una squadra che alle avversità esterne non ha reagito. Non ha reagito per il semplice fatto che ad essa mancano visioni ed idee di gioco. Non sa dove vuole andare (potrebbe andare lontano, visto che, avendo giocato solo 15′ ha costruito tantissimo) e come farlo.

Una squadra che, a partire dall’ultimo girone di ritorno è sparita ed in palese involuzione tattica e mentale. A formazioni senza senso (Elmas laterale destro contro la Spal è qualcosa che non trova ancora spiegazione) si abbinano dichiarazioni che certificano il crollo di un progetto tecnico che avrebbe dovuto dare quel “quid” di forza mentale in più per raggiungere grandi obiettivi. Invece Davide Ancelotti parla di squadra abbattuta per non aver concretizzato quel grande quarto d’ora. Insigne parla della gara con l’Atalanta e di quanto abbia condizionato la pessima prestazione dell’Olimpico.

Non c’è bisogno di aggiungere altro. Se non la certezza di un allenatore che al Napoli non ha dato e non potrà dare nulla. Nonostante un mercato che – parole sue – l’ha soddisfatto in pieno.

Essì. Ancelotti in questo momento fa tristezza.

PAOLO BORDINO

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Giulini, lui la vera delusione, a fatti e parole, del “progetto” Zeman-Cagliari

Dopo le discutibili dichiarazioni di Tommaso Giulini, presidente del Cagliari, in cui etichetta Zeman come una delusione, riproponiamo un vecchio pezzo. Firmato Paolo Bordino è il diario di bordo di un idillio fatto solo di parole. Nato e crollato tra incoscienti adulazioni e critiche fuori luogo.

Dire di averlo detto, profetizzato, annunciato in tempi non sospetti, senza per questo essere tacciati di assurgere a ruolo di banderuole agitate dalla forza degli eventi, è un esercizio inutile. Quasi una tautologia, alla luce di ciò che è stata per Zdenek Zeman l’esperienza cagliaritana. Una fine prevista. Letta, annunciata sin dall’inizio di una calda estate in cui troppe volte si è sentito dalla bocca di presidente rossoblu Tommaso Giulini uscire la parola “progetto”. 

Un termine usato ed abusato, dalla connotazione spesso giovanottistica, ma che mal si confà ad una massima serie in cui il semplice rischio di abbandonare la categoria, con buona pace del c.d. “paracadute”, implica la perdita di cospicui introiti concordati con il sistema delle televisioni a pagamento e dei relativi gruppi di interesse ad esse sottese.

Ed è così che sembra essere finita l’avventura di Zeman nell’Isola dal mare smeraldo e dalle spiagge bianche, con una tifoseria che, nonostante la penuria di risultati davvero positive e le zero vittorie casalinghe, ha saputo comprendere (che è più difficile di saper amare, badate bene!) il Boemo assai più di qualsiasi piazza in cui egli stesso ha allenato. Ad esonero avvenuto, l’inaugurazione di uno Zeman club a Quartu Sant’Elena è un qualcosa di unico ed irripetibile. Alla luce di quanto ribadito, è evidente che la piazza cagliaritana avrebbe meritato ben altro dai protagonisti di una vicenda professionale e sportiva a cui sarebbe bastato davvero poco per decollare.

Partiamo da oggi. Dalle dichiarazioni di un presidente che presenta il successore del tecnico appena esonerato (non) spiegandone le ragioni:

Le motivazioni dell’esonero di Zeman me le tengo per me. Certo è che fatale è stata la sconfitta interna (0-4, nde) contro la Fiorentina. Non si può dire alla squadra che aveva giocato bene nonostante la larga sconfitta casalinga, episodio che ha fatto perdere le certezze alla squadra ed allo staff tecnico.

In buona sostanza, non spiegando le reali ragioni dell’esonero di Zeman, Giulini punta il dito contro la fase difensiva (tralasciando qualsiasi analisi sulla dinamica di un match che, nel corso del primo tempo, poteva vedere il Cagliari avanti almeno 3-1 ed a riparo da qualsiasi crollo mentale) ma esonera Zeman dopo la gara contro la Juve (“Zeman sapeva già da venerdì di essere esonerato ed ha continuato a lavorare nonostante sapesse della mia intenzione di esonerarlo…”) in cui sono trapelate critiche della società proprio per la “perdita di certezze” dovute al cambio di modulo in funzione di una maggiore copertura difensiva! Un vero e proprio controsenso.

Zeman recepisce le critiche (a nostro avviso fondate fino ad un certo punto) del presidente ed il presidente lo esonera. Qualcosa inizia a quadrare poco. Anche perché sembra che l’assenza per infortunio di Sau, una delle poche certezze tecniche presenti in organico per Zeman, così come lo stop forzato per il brasiliano Avelar, senza il quale il Cagliari, in sole tre gare e mezzo, ha preso più della metà del monte complessivo delle reti subite, siano episodi che non abbiano, a detta del presidente, influito.

Giulini e la dichiarazione a Zeman

Sappiamo tutti ormai che il matrimonio Zeman-Cagliari ha avuto origine a fine giugno quando Giulini strappò il Boemo al Bologna proprio sull’altare. “Mister, ho preso il Cagliari solo per lei…” sembra – stando a fonti attendibile – la frase che ha portato Zeman a scappare dall’altare e salire a bordo della sua metaforica motocicletta per accendere la Zemanlandia sarda.

Proclami, entusiasmi e termini da modernariato delle teorie d’impresa che ben presto hanno ammaliato una tifoseria desiderosa di uscire dalla spirale del palla lunga e pedalare a cui stagioni insipide l’hanno costretta. Fin qui le parole. La prova dei fatti è andata in direzione del tutto opposta alle premesse.

Per rendersi conto di quanto, oltre a quanto già chiaro in estate, da parte del presidente il rapporto con l’allenatore sia stato dal principio estremamente difficile e problematico, se non addirittura inesistente, occorre aprire il microfono e spalancare il taccuino alla viva voce dello stesso presidente:

Il rapporto con un allenatore è sempre teso a far conciliare le sue esigenze con quelle del club. Lui non è di molte parole, lo sapete. Un po’ pesa anche la differenza d’età, ma abbiano cominciato a giocare a golf insieme e ciò ci sta aiutando molto a dialogare

– Tommaso Giulini, 15/10/2014.

Nel calcio gli episodi sono fondamentali: probabilmente senza l’espulsione di Nagatomo non sarebbe finita 4-1. Nel secondo tempo speravo di fare il quinto gol per stare più tranquillo. Esonero di Zeman? Mai pensato a cambiare in corsa il progetto, ma quando non arrivano i risultati qualche domanda te la fai…

– Tommaso Giulini post Inter-Cagliari 1-4.

A fine primo tempo ho pensato che fossimo vittime della solita maledizione del Sant’Elia. Poi c’è stata una grande reazione dei ragazzi, ma sono deluso per non aver vinto questa partita.(…) Donsah e Caio? Hanno fatto entrambi benissimo, anche se sono entrati in un momento tatticamente difficile, andranno valutati anche in un contesto normale. (…) Il bilancio dopo 7 giornate non è buono (Cagliari in zona salvezza, nde), speriamo che questo pareggio ci sblocchi, possiamo fare di più. Mi pare che specialmente in casa i ragazzi siano un po’ tesi. Poi dobbiamo assolutamente lavorare sulle palle inattive (…) Oggi avremmo dovuto vincere, fino al primo gol della Samp la partita era nelle nostre mani. L’arbitro è stato eccellente (gol regolare annullato a Longo, nde), abbiamo avuto tante occasioni. Dovevamo fare tre punti ma non li abbiamo fatti. Non penso nemmeno che vinceremo tante partite continuando a buttare via tutti i calci d’angolo e le punizioni.

– Tommaso Giulini post Cagliari-Sampdoria 2-2.

Lo spettacolo è stato fantastico, in Italia dovrebbero esserci molte più partite del genere. Sono meno soddisfatto della gara della mia squadra, non si può entrare in campo con quell’atteggiamento, l’allenatore deve lavorare più seriamente perché non sempre è possibile recuperare dopo uno svantaggio simile…

– Tommaso Giulini post Napoli-Cagliari 3-3.

Ci siamo limitati ad estrapolare pezzi di dichiarazioni del presidente rossoblù relativi alla spiegazione del rapporto col tecnico caratterizzato, a detta dello stesso numero uno di viale La Playa, di pressoché totale incomunicabilità, sulle cui ragioni non vogliamo qui indagare e che possono semmai restare sullo sfondo del rapporto tra presidente e allenatore.

Ciò che abbiamo raccolto sono tre sfoghi del presidente al termine di tre tra le migliori prestazioni del Cagliari zemaniano. Dopo il successo 4-1 a San Siro, con quattro reti e rigore sbagliato già al termine dei primi 45’, roba che a Cagliari nessuno ha visto neppure ai tempi di Gigi Riva, la frecciatina al tecnico non mancava su due direzioni: a) l’espulsione di Nagatomo che avrebbe determinato, secondo Giulini, le sorti del match; b) il mantra in base al quale con le squadre di Zeman non sei mai tranquillo. Nel primo caso, se un alieno fosse giunto da Marte in quel momento, avrebbe probabilmente scambiato le dichiarazioni di Giulini con quelle di Mazzarri, mentre nel secondo caso è apparso di ascoltare il tipico refrain di ogni antizemaniano.

Dopo la gara contro la Sampdoria, che il Cagliari dovette affrontare con una coppia centrale inedita e pressoché esordiente in A al cospetto di una formazione che prima d’allora aveva subito solamente due reti, sembrava che gli unici scontenti fossero lui e il tecnico doriano Mihajlovic. Il match vide il Cagliari rimontare due reti dopo gli ingressi dei giovanissimi Donsah e Caio Rangel, determinanti entrambi nell’economia del match, e negare il terzo gol di Longo da una discutibile decisione arbitrale. Eppure, a completamento del quadro, alla scontentezza il presidente aggiunse la minimizzazione dell’impatto dei due giovani sulla partita (cosa che neppure un qualsiasi Zamparini avrebbe fatto) a fronte peraltro dell’esaltazione della prestazione di Benedetti (portato a Cagliari da Giulini in persona e bocciato già ad agosto da Zeman) e l’ingresso nel merito del lavoro dell’allenatore. La polemica sulle palle inattive, in tal senso, ebbe ad apparire eloquente sulla valutazione del lavoro di Zeman da parte di Giulini, che diede anche la sensazione che, per convincerlo, Zeman avrebbe dovuto vincere con Dessena, Conti e Pisano (contratti rinnovati per loro) prima che con giovani del ‘96. Il climax ascendente degli attacchi, neppure troppo velati, lo si raggiunse a Napoli, al termine di un 3-3 che ha ricordato, a tutti gli zemaniani storici, quello della stagione 91/92, un Napoli-Foggia che consegnò Zeman al calcio italiano e regalò ai satanelli terribili titoli di tutte le principali testate nazionali in visibilio.

Le analogie con quella gara dovevano essere colte, ma mentre sappiamo che un Pasquale Casillo avrebbe gongolato davanti a microfoni e taccuini, esaltando squadra e allenatore, mister Fluorsid ha preferito attaccare a testa bassa l’allenatore e la squadra per la prima mezz’ora di gioco al termine della quale lo stesso Napoli che ha sconfitto la Juve in Supercoppa, quindi non esattamente la Sangiuseppese, era avanti 2-0 per poi subire la rimonta rossoblù dando vita ad un 3-3 che ha riconciliato tutti con lo spettacolo del calcio. Eppure l’allenatore che ha dato asso e tre a Rafa Benitez (uno con un certo curriculum) avrebbe, secondo mister Fluorsid, dovuto lavorare “più seriamente”. Eloquente! Così come apparve sgradevole, nella circostanza, l’aver eletto Ekdal come migliore in campo, rilasciando una dichiarazione che, qualora fosse promanata da un’opinionista avrebbe avuto un senso, ma da un presidente ha assunto il sapore di un qualcosa di quanto mai inopportuno agli occhi della squadra.

Alla luce di queste dichiarazioni, la sconfitta con la Fiorentina ha avuto il sapore di un crollo mentale derivante dal fatto che da un lato l’allenatore si è trovato in sostanza delegittimato agli occhi di una squadra che pur l’ha sempre seguito, dall’altro la squadra ha inconsciamente finito per credere alle continue esternazioni del presidente dalla cui bocca sono uscite solo dichiarazioni al fiele nei confronti del tecnico uniti a valutazioni tecniche che sarebbe stato, alla prova dei fatti, più opportuno evitare.

Tralasciamo le dichiarazioni di Giulini rilasciate al termine della gara contro il Chievo in cui venivano mosse a Zeman accuse su precise scelte tecniche (l’impiego di Conti, Ibarbo e Cossu per tutta la gara contro il Modena in Coppa) perché non servono a far comprendere quale fosse l’esatta valutazione di Zeman e del suo lavoro compiuta da Giulini, la cui cartina al tornasole è possibile apprezzare solo nei casi in cui sprazzi di Zemanlandia ci sono effettivamente stati. Così come è bene ricordare che, fino al match contro i clivensi, una squadra composta in maggior parte da elementi provenienti dalla B con qualche ex Primavera stazionava stabilmente in zona salvezza.

“Caro Sdengo, quando imparerai a capire quanto vali?” – gli chiedemmo in estate. Già perché, ammaliato dalle belle parole (sistematicamente non tramutatesi in fatti) di Giulini, il Boemo ci è ricascato di nuovo, scivolando su più di una buccia di banana ed affrontando l’avventura cagliaritana a mo’ di salto nel buio. 

Un buio derivante dal fatto che Zeman a Cagliari è stato solo. Avere dalla propria parte un pubblico che l’ha capito come nessun altro ed una stampa locale che mai come stavolta l’ha supportato senza se e con pochi ma non basta se in società e nello staff medico non ci sono suoi uomini. Mancava il Pavone di turno – il cui rifiuto di raggiungerlo a Cagliari non è suonato a sufficienza come campanello d’allarme, mancava l’Altamura di turno, trait d’union tra tecnico, squadra e società, così come non si è avuta dall’esterno la sensazione della presenza di uno staff medico in sintonia con i modi di lavorare dell’allenatore.

I suoi metodi sono particolari ed al giorno d’oggi rari. Per non delegittimarli agli occhi di chi non vive ogni giorno le vicende della squadra, la sintonia tra tecnico e staff medico è alla base di tutto, ma spesso (e Roma avrebbe dovuto essere d’esempio) il Mister tende a dimenticarlo. 

Per ricominciare in massima serie è bene che Zeman faccia tesoro di questi piccoli, grandi accorgimenti. Sembrano sciocchezze insignificanti, ma sono alla base di tutto. Così come è alla base di tutto evitare – specie in un contesto come quello appena descritto, con i “gatekeepers” non scelti dal tecnico – di andare sempre per miracoli.

Accettare che si punti su Farias, Caio Rangel, lo stesso eccezionale Ceppitelli “scarto” del Parma ultimo in classifica, due Primavera come Donsah e Capello, tre arrivi dalla B come Balzano, Crisetig e Capuano (elementi che hanno reso anche più del loro valore, beninteso), può essere possibile solo se tutto il contesto societario di contorno non solo crede, ma fa sue le scelte e il modo di vedere il calcio dell’allenatore.

Obiettivamente, il Cagliari di Giulini (con tutta la stima ed il rispetto per Marroccu, Sanfelice e lo staff medico) non era il contesto adatto per far sì che il calcio di Zeman trionfasse nel senso più ampio del termine. Ed è demerito dello stesso mister non aver compreso che in massima serie spesso non si può aspettare e che occorre andare con le spalle copertissime. Anche battendo i pugni sul tavolo. E lasciando perdere i “progetti”, perché non esistono in serie A, territorio in cui il tracollo economico è dietro l’angolo. 

Basterebbe un presidente che gli dica: “Sdengo, voglio risultati subito. Ma hai carta bianca. Scegli tutto tu, anche il magazziniere!”. Altro che progetto! Quella, sì, sarebbe Zemanlandia.

Intanto, a Cagliari arriva Zola. Zemaniano e amico di Zeman. Non sarà facile neppure per lui, schivo e riservato, trovare un punto di incontro con un presidente che non ha dato la sensazione di comprendere che la coperta che ha cucito è corta e non è possibile avere sempre botte piena e moglie ubriaca. Ha il vantaggio di conoscere l’ambiente e di avere quel giusto buonsenso tale da ragionare con la propria testa per lavorare su quella di un gruppo volenteroso ma al quale risultati e non solo hanno tolto più di qualche sicurezza. Lo merita Cagliari, lo meritano tifosi straordinari per cui la serie A è un patrimonio da non disperdere. Ma basterà?

PAOLO BORDINO

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IL MIRACOLO MODICA TRA RIMONTE E MUGUGNI SOCIETARI

Miracolo-Modica-Pavone

Se Giacomo Modica è colui che, dopo tanti anni di caccia all’erede di Zeman, sta dimostrando sul campo di potersi fregiare di questa etichetta scomoda, c’è da dire che la terra di Calabria è terra di rimonte zemaniane.

Ieri la Cavese di Modica è andata sotto 3-0 nel primo tempo. Poi si scuote, Fella accorcia le distanze, De Brasi para un rigore e nel finale, (89’ e 95’) lo stesso Fella e Bacchetti (ve lo ricordate?) recuperano fino al 3-3 siglato dall’ex difensore del Pescara all’ultimo respiro. Sempre da quelle parti, anno del Signore 2002, fu la Salernitana di Zeman a recuperare uno 0-3 nel primo quarto d’ora di gioco. Eravamo più o meno di questi periodi, tra il freddo dell’inverno imbolsito ed un primo raggio di primavera. Ricordi ormai sfocati. Nel primo quarto d’ora, Sculli fece il Maramaldo, portando i pitagorici sul 3-0. Poi, nel finale, Vignaroli ed un super Bellotto firmarono un’impresa di cui se ne ha ancora memoria. Un’impresa analoga a quella compiuta dalla Cavese.

Eppure, a sorpresa, succede che la società del numero uno del sodalizio blu-foncé Massimiliano Santoriello ordina il ritiro ed il silenzio stampa. Santoriello pare non aver gradito l’atteggiamento in campo della squadra nel corso del primo tempo.
Anche quanto fatto oggi dalla Cavese avrebbe dovuto e potuto fare storia. Una squadra partita dopo il ripescaggio estivo con l’obiettivo-salvezza, costruita dal ds Pavone e da Giacomo Modica puntando su uno zoccolo duro, composto dal gruppo che con il tecnico siciliano ha ottenuto buoni risultati a Messina in serie D l’anno prima, integrato da pochi confermati (tra cui le attempate bandiere Favasuli e De Rosa ed il talentuoso ma incompiuto Fella) ed ancor meno elementi di categoria. Ai nastri di partenza, la Cavese è all’ultima fila della starting-grid. Soltanto la Paganese sembra sulla carta avere qualcosa in meno. Come accorciare il gap con le altre concorrenti? Lavorando di più sul campo. E meglio. Ed è così che domenica dopo domenica, punto dopo punto, gli aquilotti di Modica compiono una prima impresa. Riescono, infatti, a non essere mai coinvolti nella lotta per non retrocedere, togliendosi anche lo sfizio di compiere qualche impresa. Spicca in tal senso il 3-0 esterno di Reggio Calabria.
Ma si sa che Cava ha fame di calcio. Dal 2011 fino a quest’estate, nelle colline care a Metello, il calcio ha assunto per tifosi ed appassionati le sembianze di una via crucis tra fallimenti, cambi di proprietà, annate tra i dilettanti regionali, risalite e delusioni.

Il presidente Massimiliano Santoriello è tra quelli che si definiscono tifosi delle proprie squadre. E decide di alzare l’asticella, spinto dalla posizione tranquilla in graduatoria, provando a fare un non meglio definito “qualcosa in più”. Ed ecco che nella città della badìa iniziano ad arrivare elementi caratterizzati da un tasso tecnico superiore ai ragazzi già presenti in rosa. Arrivano alla corte di Modica lo spagnolo Miguel Angel Sainz-Maza, centrocampista interno di qualità con un campionato vinto all’attivo a Foggia; il difensore Filippini, scuola-Lazio, lo scorso anno titolare a Pisa; il centrocampista interno Mario Pugliese, dalla Carrarese; il difensore Loris Bacchetti, classe ’94, lanciato diciassettenne in B da Zeman a Pescara, che non ha più trovato fortuna; il centravanti Andrea Magrassi dal Ravenna, lo scorso anno in D a Matelica; il terzino destro Ferrara, ex Casertana. Tra questi, prima di gennaio, il solo Sainz-Maza trovava impiego con continuità, sia pur nel contesto di una stagione deludente a Lentini. Meno fortuna per Filippini (in parcheggio alla Lazio dall’estate) e Bacchetti, così come Ferrara. Magrassi, preso dal Ravenna, è una scommessa. Elementi che pur migliorando la qualità dell’organico non rendono una squadra che in partenza doveva salvarsi, automaticamente una candidata alla promozione.

Se il presidente che ha ordinato il ritiro dopo il 3-3 di Rende ha percepito questo (in totale buonafede, sia chiaro!), la “colpa” è proprio dell’allenatore.
Con i nuovi innesti nel motore, infatti, la Cavese è imbattuta. L’ultimo ko ad opera del Francavilla. Esattamente undici gare fa. Dopo la battuta d’arresto in terra brindisina una sinfonia di vittorie sonanti, di pareggi esterni importanti (i 2-2 di Trapani e Castellammare su tutti, con le vespe che non prendevano gol da dieci turni) ed una sinfonia di movimenti in campo che ricorda i tempi d’oro del boemo (ve ne alleghiamo qualche esempio in fondo alla pagina). In questo contesto, l’esplosione definitiva di Giuseppe Fella, che oltre ad aver quasi eguagliato con meno partite giocate il numero di segnature dello scorso anno in D sembra aver trovato una propria dimensione importante, diventando uomo-mercato per la prossima sessione. Proprio questa sfilza di risultati, annaffiati dallo champagne di un gioco spettacolare e redditizio, hanno finito paradossalmente per far sembrare l’organico della Cavese più forte di quello che è nella realtà dei fatti, con uomini di categoria che nel sistema-Modica brillano come diamanti a cento carati.

Se questa è una base di partenza per lasciar intravedere un futuro roseo anche in chiave prossima stagione, la mossa del presidente Santoriello di intervenire in quest’ottica sul mercato sarebbe da applaudire, proprio perché interviene a creare un gruppo che la prossima stagione possa partire con automatismi ancor più rodati. Ma se l’intenzione era quella di intervenire per puntare con decisione alla serie B, la via non è quella giusta. Sia perché un salto del genere lo si programma ben prima dell’estate (e non in corso d’opera), sia perché si finisce per sovraccaricare di responsabilità un gruppo che ottiene risultati copiosi grazie alla spensieratezza ed alla qualità del suo gioco. La Cavese ora si trova a 40 punti. Ad una sola lunghezza da chi, come la Casertana, l’assalto alla B l’ha dichiarato apertamente e ci ha speso per riuscirci diversi milioni di euro tra ingaggi e cartellini, da Floro Flores a Castaldo, da D’Angelo a Zito, da Vacca a Blondett. I play-off sono lì. Ad un passo. E sarebbero un trionfo, non un obbligo.

A patto che Santoriello resista alla tentazione di emulare il rampante Giulini, che contribuì allo stroncamento di Zeman a Cagliari criticando, in modo sia velato che esplicito, alcune prestazioni dei rossoblu, come quella coincisa con il successo 4-1 a Milano con l’Inter (“Però, con Nagatomo in campo sarebbe stata un’altra partita…”) e con il 3-3 del San Paolo contro il Napoli di Benitez (“Un primo tempo inaccettabile!” – toh!, chi vi ricorda?). Proprio come quello della Cavese in casa del Rende, esatto.

LA ⚽️⚽️ DI FELLA CHE SALE A 7️⃣ IN CAMPIONATO E PRIMI 2️⃣⚽️ DI ANDREA MAGRASSI IN MAGLIA BLUFONCÈ ⚪🔵🦅#sipuòOSAREdipiù #AlėCavese

Pubblicato da Cavese Calcio 1919 su Lunedì 18 marzo 2019

🦅IL VANTAGGIO DELLA CAVESE DI PUGLIESE ⚽️ NASCE COSÌ…BUONA VISIONE 😎⚪🔵

Pubblicato da Cavese Calcio 1919 su Lunedì 11 marzo 2019

PAOLO BORDINO

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Da Sarrismo a Sarriball: lo stato dell’arte del progetto-Chelsea 

Sarri-Sarrismo-Sarriball

 

La coniatura enciclopedica del termine Sarrismo, se da un lato rappresenta la risultante di tre stagioni in cui nessun altro come il Napoli è riuscito ad andare vicino a scalfire il potere della Juventus, dall’altro racchiude in sé il rischio che l’allegoria prenda il posto di quel terreno verde in cui lo stesso neologismo collegato alla figura del tecnico tosco napoletano trova una propria sublimazione. Sarri, del resto, è uomo di campo prima di qualsiasi altra cosa e appare fondamentale, in questa fase, accendere i riflettori su punti di forza, debolezze e potenzialità del suo Chelsea, al termine di un primo scorcio di stagione in cui i blues – risultati alla mano – sembrano respingere al mittente le aspettative di difficoltà di recepimento tattico del credo sarriano da parte del gruppo, da più parti vaticinati.  

 4-3-3  NON SI CAMBIA 

Il modulo di gioco resta il 4-3-3. Nelle idee iniziali, dei punti di contatto con il Napoli ci sono. In primo luogo, la chiara intenzione di impostare una catena di costruzione a sinistra ed una catena di equilibrio-finalizzazione a destra. Basti pensare alla caratteristiche dei terzini (Azpilicuetaviene dalla difesa a tre mentre Alonso è maggiormente portato ad offendere).Ciò è reso evidente dalla presenza di Kante a destra e Kovacic a sinistra, quest’ultimo deputato principalmente ad un ruolo di raccordo non solo della catena mancina, ma delle due fasi di gioco. In particolare, Kovacic ha un doppio compito, tra i più delicati nell’economia complessiva degli equilibri tattici: 1) coprire la spinta di Alonso, rinculando in fase difensiva; 2) inserirsi quando Hazard si abbassa a prendere palla per creare gioco. Un Hamsik più solido? Mettiamola così, volendo ridurre tutto ad una semplificazione che serve comunque a far comprendere quanto il croato dia a Sarri in termini di equilibrio complessivo. Le catene, rispetto all’assetto tattico del Napoli, vedremo che presentano una struttura dinamica differente, determinata principalmente dal fattore-Hazard.  

 LA FASE DI IMPOSTAZIONE: NON SOLO JORGINHO 

L’impostazione: ovviamente, il faro è inutile specificare chi sia. Anche perché è facile credere lo sappia chiunque abbia dato lo sguardo alla distinta di un qualsiasi schieramento del Chelsea, tecnici avversari compresi. Quindi, prima cosa: schermareJorginho. Quando avviene – ed avviene sistematicamente – come mutano le dinamiche dei blues in fase di inizio azione?Kepa Arrizabalaga, man mano che passano le giornate, dà la sensazione di giustificare gli 80 milioni di euro investiti per il cartellino. Prodigiose le sue performance tra i pali contro Liverpool e Southampton. Pur essendo in netta crescita e pur migliorando l’intesa con i compagni, il basco sbaglia tuttavia ancora alcune scelte, come quando sceglie di aprire su terzini la cui linea di trasmissione palla è soffocata. L’opzione due (in attesa di capire se e come Kepa possa divenire col tempo un’opzione-tre) divengono così i centrali, bravi ad allargarsi e portare palla, specie David Luiz che quando riesce a divenire centrocampista aggiunto scompagina spesso gli equilibri avversari, specie quelli con attaccanti che non rientrano. Le statistiche appaiono in tal senso eloquenti: se prendiamo come riferimento Whoscored ed analizziamo i passaggi totali, notiamo che i due centrali David Luiz e Rudiger hanno collezionato rispettivamente 614 e 629 passaggi, secondi solo a Jorginho che guida la classifica con 853. Per dire quanto Kepa in questa fase non sia, a differenza di Pepe Reina a Napoli, un’opzione è sufficiente evidenziare che di passaggi il portiere (collezionista di cardellini) ne ha finora fatti segnare “appena” 238, pur senza sbagliarne mai la finalizzazione. Proprio l’aggiunta di Luiz in impostazione libera di fatto una linea di passaggio, spesso decisiva per una rapida verticalizzazione. Interessante tuttavia notare come Jorginho vada a grandi passi verso la direzione di un percorso di crescita che lo porta a giocare una doppia partita: con i piedi, ma anche con le mani, da tecnico in campo e depositario più di ogni altro del credo sarriano. Per farsi un’idea, è sufficiente tornare al precampionato: osservate questo video al minuto 0.55. Chi appare in difficoltà invece Cesc Fabregas. Sarri lo ha eletto vice-Jorginho, ma le caratteristiche sono diverse. Se l’italobrasiliano, pur avendo meno qualità dello spagnolo, sa già cosa deve fare due o tre passaggi prima, Fabregas ha necessità di avere la palla tra i piedi, determinando il venir meno di alcuni tempi di gioco fondamentali ad inizio azione.  

 

L’EDEN SARRIANO 

Hazard è finora il fattore che sposta gli equilibri. Un peso specifico paragonabile a quello di Higuain tre stagioni orsono. Sarri ha compreso sin da subito che il belga, che non è un omologo di Insigne e nemmeno di Mertens, presenta caratteristiche sue proprie che vanno ricondotte non già ad uno schema, ma ad un’idea in cui, a nostro modo di vedere, lo vede più vicino ad un Higuain. Un finalizzatore più che un creatore, pur tuttavia risultando imprescindibile anche per la sua profonda vena creativa. Sarri, per questi motivi, in questa fase chiede ad Hazard essenzialmente una cosa. Non di mantenere la catena (la partenza a sinistra è solo nominale, ma svaria su tutto il fronte) ma di restare negli ultimi 30 m, laddove può suggerire e soprattutto finalizzare, che è ciò che gli riesce meglio, alla luce delle sette reti in otto gare (lo scorso anno ne aveva complessivamente realizzate dodici). Anche per questa ragione, in questa fase, a Morata sta preferendo Giroud, che si rivela essere un elemento fondamentale capace di far crollare la letteratura secondo la quale Sarri ripugnerebbe il centravanti-boa. Perché Giroud si rivela così determinante? L’abbiamo visto in Russia. Non segna, ma fa vincere mondiali e partite perché non solo crea spazi con la sola stazza in partite “chiuse”, ma si rivela un’arma in più nel suggerire quelle palle, talvolta sporche, sfruttando molto le sue lunghe leve. Anche qui è opportuno proporre un video: minuto 1.36 e 3.50. Un po’ di numeri che attestano il maggior impatto del francese nella manovra dei blues:  finora Giroud è il top-assistman (4) e ha collezionato 120 passaggi contro gli 89 di Morata, a fronte degli stessi minuti giocati. Sarri dispone di cinque attaccanti titolari. Li ha alternati abbastanza regolarmente anche perché non si tratta di “doppioni”. Ognuno ha caratteristiche di base differenti: oltre a Giroud ed Hazard, ti ritrovi con Pedro che ha nel taglio-Callejon la sua arma (ed è risaputo quanto un elemento dalla sue caratteristiche, capace di mettere finora segno tre reti, sia fondamentale nel momento in cui gli avversari fanno densità in zona palla o quando l’azione si sviluppa sul lato opposto, laddove il Chelsea costruisce, al fine di sfruttare il lato debole, come qui al min. 0.55), Morata che legge la profondità (le sue difficoltà iniziali sono spesso dovute alle squadre che chiudono il verticale) e Willian che è in grado di creare superiorità con il dribbling a rientrare, pur non essendo un finalizzatore. Più dietro nelle gerarchie c’è il nigeriano Moses, parzialmente adattato per le sue caratteristiche rivolte alla copertura, al punto che Conte non disdegnava di impiegarlo esterno a centrocampo nel suo proverbiale 3-5-2.

DIFFICOLTÀ VECCHIE E NUOVE 

La difficoltà principale, per il momento, è data dalla paura che in certi momenti ha la linea difensiva nell’accompagnare l’azione in fase di non possesso, determinando spesso, oltre alle difficoltà nel portare un pressing efficace, situazioni di palla scoperta acuite dalla posizione di Alonso, sempre molto alta, oltre ad una certa distanza che va a crearsi tra centrocampo ed attacco di cui avversari bravi a riempire glihalf-spacespossono approfittare. In alcune fasi è stato Kante, a metterci una pezza con chiusure da lato a lato da antologia; in altre occasioni si ripresenta la tipica situazione napoletana di difficoltà sugli attacchi avversari da lato a lato. Tolti gli attaccanti che vengono ruotati molto tanto di partita in partita che all’interno della gara stessa, il “dodicesimo” uomo è Ross Barkley. Con lui il centrocampo cambia parte delle caratteristiche di base, alzando il baricentro e creando di fatto una situazione di 4-2-3-1 tale da alzare la pressione ed invertire le inerzie. Barkley, pur essendo più forte fisicamente, come Zielinski nasce trequartista e come il polacco, a fronte di un enorme talento ed un evidente positiva sfrontatezza, necessita ancora ultimare il suo processo di crescita, necessitando ancora di digerire a fondo il meccanismo delle catene, in cui l’interno di centrocampo deve coprire la spinta del terzino. Un esempio dell’altra faccia della luna lo si osserva nel match contro l’Arsenal, un proprio compendio di come, pur vincendo 3-2, gli uomini di Sarri soffrano molto le situazioni descritte, anche perché è proprio Barkley a far venir meno l’equilibrio sulla corsia mancina, lasciando spesso Alonso solo ad affrontare situazioni di 1vs2. 

 RUOTARE SÌ, RUOTARE NO 

Infine, rotazioni. Gli attaccanti, come detto, ruotano tutti. Sia nell’arco del match che da match a match. Tutti tranne uno, ovviamente. L’altra rotazione è proprio Barkley-Kovacic, la quale contro il Southampton sembra aver pagato dividendi enormi. Gli altri, almeno in campionato, sono quelli. Nelle coppe, invece, ruotano tutti. Contro il Videoton, difesa tutta nuova, contro il Liverpool in Carabaho Cup per tre quarti. Va specificato tuttavia che – come noto – le vicende estive, tra reduci dal Mondiale, infortuni e tardivo ingaggio dello stesso Sarri, hanno determinato che, di fatto, la squadra non ha portato avanti il ritiro precampionato. A dispetto di ciò i risultati danno ragione a Sarri, che continua a ripetere quanto Klopp e Guardiola siano uno step avanti e quanto sia difficile colmare il gap in una sola stagione.  

Per ora, attimi di Sarriball non mancano.  

PAOLO BORDINO 93

Stella Rossa-Napoli: la lunga transizione verso il Napoli che (forse) verrà

Stella Rossa-Napoli

Dopo questi 90′ di Stella Rossa-Napoli alcuni elementi tattici di novità, al di là dei principi, sembrano decisamente evidenti.

ASSETTO ED EQUILIBRIO TATTICO

Il tipo di assetto tattico scelto per il Napoli è un 4-4-1-1.  Tre punte nominali, ma disposte differentemente in termini di dinamica del gioco. Si tratta di una riedizione, riveduta e non ancora corretta, della Roma di Fabio Capello. Quella del suo terzo anno in giallorosso, con Batistuta centravanti, Cassano libero di svariarci attorno e Marco Delvecchio esterno equilibratore ed uomo in più, all’occorrenza, in fase di conclusione. Un primo obiettivo, rispetto alle prime uscite, Carletto lo ha raggiunto: trovare un certo equilibrio tattico. La squadra è infatti meno lunga, gli appoggi ed i sostegni ci sono e Milik sembra essere un autentico protagonista del tipo di gioco. Dal modulo attuale, nonostante la catena di sinistra muti pelle, ne vien favorito Zielinski, fulcro della costruzione esterna ed uomo deputato a non offrire punti di riferimento: quando il Napoli aumenta la pressione si accentra e in fase di possesso avvia il passaggio ad un basculante 4-2-3-1.

LE NOTE DOLENTI

Insigne non svaria fino in fondo. Si scambia bene con Milik, trovando una posizione di calcio più favorevole, ma potrebbe essere ancora più decisivo. La sensazione è che il lavoro del tecnico punti, al fine di un salto di qualità del gruppo, a creare le condizioni per uno sviluppo definitivo del calciatore, ampliandone il bagaglio di incidenza, portandolo a tirare fuori le qualità.

Allan in questo modulo ha problemi. Limitato negli inserimenti, per la crescita che ha avuto negli ultimi tre anni appare chiaro non intenda sentirsi alla stregua di un Magoni qualsiasi, dal punto di vista tattico.

Al Napoli di oggi, stante lo stato tattico dell’arte, ciò che manca è il ritmo di gioco. Gli automatismi, anche se destinati a passare per lo sviluppo individuale dei singoli, saranno da ricercare in allenamento.

Ma la via è questa. E questo sarà il Napoli che dovremmo vedere almeno fino alla fine di questo campionato. Resta il fatto che mutare di continuo l’assetto tattico a partita in corso, a differenza di quanto si pensi, si dica o si rimproveri, genera effetti positivi solo se fatto con cognizione di causa, preservando comunque degli equilibri. Nel caso del match di ieri sera contro la Stella Rossa, l’inserimento di Mertens ed Ounas hanno determinato un intasamento degli spazi senza un corrispondente beneficio nei duelli uno contro uno.

In questo contesto, è bene che Ancelotti, dopo Genova, abbia chiara un’evidenza: se Callejon in quattro anni salta solo tre partite, evidentemente una ragione c’è. Con buona pace del turnover.

PAOLO BORDINO 73

Di Francesco e il perenne equivoco targato Roma

Di Francesco Roma

La storia di Eusebio Di Francesco sulla panchina giallorossa è una storia battistiana. Le discese ardite e le risalite rappresentano ormai una costante. Frutto di una nevrosi tattica e mentale di un contesto che non ha saputo cogliere dei momenti di possibile svolta. Ha avuto il limite di essere tratto in inganno da episodi estemporanei (leggasi “remuntada” ai danni del Barça) che, dal punto di vista tattico, hanno finito per aggiungere confusione su confusione, equivoco su equivoco.

Sgombrare subito il campo da un’etichetta che Eusebio si porta dietro: l’essere un discepolo di Zeman. Di Francesco (d’ora in avanti EDF) non è Zeman. Non lo è quando vince e non lo è quando perde. Non lo è per il semplice fatto che mentre il boemo ha da sempre proposto un modo di difendere volto ad attaccare la palla, altrettanto non si può dire per Di Francesco, che ha sempre parlato di doppia fase di gioco, abbinando ad alcuni principi tattici ben definiti una consistente parte del proprio tempo allo sviluppo del gioco. Vari sono, infatti, i vestiti tattici adottati dalla Roma: dal 4-3-3 al 4-2-3-1, passando per il 3-4-3, il 3-5-2 ed, in ultimo, il 3-4-1-2 che tanti problemi sta creando.

La duttilità tattica che EDF ha palesato, tuttavia, dà la sensazione di non aver determinato un upgrade nella crescita del tecnico, quanto più che altro un segno di una confusione frutto di un continuo compromesso tattico da ricercare all’interno dello spogliatoio e di un mercato su cui il tecnico dà la sensazione di avere ben poca voce in capitolo. A centrocampo, ad esempio, se vanno via Nainggolan e Strootman per essere rimpiazzati da Nzonzi, Cristante e da un Pastore a cui volente o nolente devi trovare una sistemazione in campo.

Ciò implica l’applicazione di differenti principi di gioco, diversi in modo radicale non soltanto rispetto a quelli che EDF ha declinato al Sassuolo, ma anche e soprattutto rispetto a quelli che la squadra ebbe a mostrare nella doppia sfida al Chelsea della scorsa Champions. Le due migliori recite della Roma del tecnico abruzzese. Aggressività sistematica sul portatore avversario, allargamento della manovra sugli esterni, Dzeko fulcro della manovra offensiva. I nuovi acquisti hanno nelle proprie corde un calcio differente, non fanno della rapidità il loro forte a beneficio di un calcio più ragionato e posizionale, al di là del discorso qualitativo.

La gara contro il Milan incarna altri equivoci, il primo dei quali il ricorso alla forzata convivenza Dzeko-Schick. Il primo, che ha bisogno di riempire da sé l’area di rigore, si ritrova costretto a dividere spazi e movimenti con il ceco il quale, spesso e volentieri, si ritrova ad essere servito come preferirebbe.
L’altro è la difesa a tre. Se con il Barcellona a bassa intensità è stata una carta vincente, lo è di meno contro squadre che praticano una pressione ultraoffensiva che stritola gli interni di centrocampo nell’uno contro uno e lascia i tre centrali spesso in parità numerica. In tanti prendono il DVD di Liverpool-Roma e studiano.

Ora pare EDF voglia tornare al 4-3-3. Se lo farà, deve essere consapevole del fatto che senza Strootman e Nainggolan dovrebbero essere portate avanti scelte pesanti e forse impopolari. E che non pochi riflessi potrebbero avere negli equilibri dello spogliatoio.

E Pastore? Rischia di diventare ancor più un equivoco.

Non c’è bene, grazie.

PAOLO BORDINO

75

E allo Stadium passò l’R2

Chi ha bazzicato per almeno un buon lustro il tratto di strada che collega Piazza Garibaldi a Piazza Borsa, altro non fosse che per occupare, con profitto o meno, i banchi delle variegate facoltà universitarie che popolano il Rettifilo, sa che fino all’apertura della fermata della metro collinare della stazione centrale di Napoli un autobus a forma di serpentone ha assunto i contorni, a seconda dei casi, di acqua nel deserto o di Satana a tre corna. R2 il suo nome. Ed ai napoletani dirà tanto.

L’R2 aveva ed ha una caratteristica: il caos. Sia quando si saliva che quando si scendeva. Preso d’assalto dinanzi alla statua di Garibaldi – con scene di calca da intervento quotidiano di un’immaginifica Celere – e abbandonato di corsa prima che le porte si chiudessero in faccia alle frotte di varie umanità che, scendevano sempre all’altezza dello stesso punto: poco prima di piazza Borsa. E ritorno. Pari pari.

Il serpentone, trasformatosi d’improvviso in un il cilindro in cui la saturazione dell’ossigeno raggiungeva livelli accettabili, garantiva un prosieguo del viaggio discretamente confortevole. I posti a sedere iniziavano a non mantenere più le sembianze di una chimera. Una perifrasi per dire che, da un certo momento in poi, si stava abbastanza larghi.

Dopo un sofferto viaggio d’andata, il mezzo più ambito dai napoletani si è fermato ieri. Non a Piazza Borsa, ma allo Juventus Stadium di Torino. In effetti, sul bus si iniziava a stare decisamente larghi ed era prevedibile tornasse pieno zeppo come un uovo. Quei pochi che erano rimasti erano lì, seduti comodi ad osservare lo spettacolo: “Permesso!! Permesso!! Fate passare o’vicchieriello, ca s’adda assettà…”. Perché Il vecchierello, furbetto come pochi, supportato da orde di amici, pieni di reverenza o di compassione non è dato sapere, sa che dal carro può salire e scendere quando vuole. Tanto, nessuno farà notare che, magari, l’età è una scusa e sarebbe stato più corretto, per stare comodi, salirci a tempo debito.

Assieme a lui, altri spingono forte e ti danno la sensazione, pur da seduto, di stare sottovuoto come un pacchetto di caffè da 250 g; altri ancora si esercitano con una buona dose di demagogia a chiedere di pensare ai bambini che in piedi nell’ex carro vuoto ridiventato carnaio iniziano a soffrire. Altri ancora, con un gioco di prestigio, provano a fregare il portafogli. Non mancano i ragazzini in pieno ormone adolescenziale: “Se facciamo l’incidente muore solo il conducenteee!!”. A completamento del quadro chi, ad un conducente che da uomo solo al comando si ritrova tirato per la giacchetta ad ogni cazzo di fermata da chi, ormai, vorrebbe salire ma non c’è più posto. Proprio lui, sudato, senza neppur poter sfumacchiare una sigaretta, sa che Piazza Garibaldi e la stazione pur vicina sono in realtà lontane. E che, magari, arriverà pure qualcuno che tirerà le pietre. O, peggio ancora, il timore che il bus si rompa. Per cause da lui indipendenti ma che a lui, nell’immediato, verrebbero imputate. E allora immagina le urla della gente, le maledizioni al servizio pubblico che, ovviamente non funziona mai. In salsa un po’ nera ed un po’ verde. Tra un “Ci vuole LVI, caro lei!”, con cui i mezzi arrivavano in orario e l’auspicio di una passata di Salvini, che ci sta sempre bene.

Poi, però, piazza Garibaldi arriva. E scompaiono i vecchietti che da semiparalitici diventano Bolt, la guagliunamma piena di testosterone, i mariuncielli , ed anche le signore che urlano “Permeeeessoooooooo!”.

E lui può fumarsela quella sigaretta. In santa pace. Con un bel dito medio a tutti.

PAOLO BORDINO 72