IL REAL MADRID E’ PER LA 14ESIMA VOLTA CAMPIONE D’EUROPA

Contro ogni pronostico Carlo Ancelotti, alla guida di un sottovalutato Real Madrid, batte Psg, Chelsea, Man City e in finale il Liverpool e si laurea per la quarta volta campione d’Europa divenendo leggenda del calcio mondiale insieme al suo club e ai suoi giocatori.

1. IL GIOCO POCO SPETTACOLARE DEL MADRID

Trionfa una squadra, il Real Madrid, che all’Italia degli Europei del 2000, talmente prudente da scomodare il disgusto pubblico di Pelè, ha fatto le fusa. D’altronde Zoff e Ancelotti appartengono alla stessa generazione calcistica.

Il modo di giocare del Real pertanto è risultato abbastanza anacronistico. È parso di tornare, durante una singola notte parigina abbastanza lunga, ai tempi delle vittorie spiegate da Nereo Rocco: basta un cristo che para e un mona che segna.

2. I FUORICLASSE: COURTOIS IL DRAGO E BENZEMA KARIM THE DREAM

E il Real ne ha avuti due sublimi, cioè Courtois e Benzema. Due fuoriclasse che sono saliti in cattedra dagli Ottavi di finale Champions in poi e hanno obiettivamente portato a scuola la nobiltà del calcio europeo.

3. LA STRATEGIA DEL MADRID

Complicato immaginare, senza tali individualità, un ennesimo trionfo del made in Italy by Carlo Ancelotti. La finale è stata, non a caso, decisa su un tiro sporco di Valverde deviato in porta da Vinicius.

Così la voleva vincere Ancelotti e così l’ha vinta. Attendismo e centrocampo folto a togliere ritmo al Liverpool.

I reds, arrivati alla 63esima partita stagionale, avevano poca benzina. Quella che bastava per vincere questa Champions l’hanno messa in campo ma Courtois, con le sue parate, ha impedito che il motore avversario carburasse.

4. LA RINASCITA DI ANCELOTTI

Per la gloriosissima carriera bisogna comunque essere contenti per la vittoria di Ancelotti, il quale aveva intrapreso un viale del tramonto poco edificante tra Napoli ed Everton.

A Napoli, in particolar modo, non è stato messo nelle condizioni di rendere. Voleva trasformare l’ambiente e ne è stato fagocitato rischiando di compromettere il crinale finale della propria carriera. Pagò il non sapersi estraniare dalla melma in cui lo cacciarono società, tifosi e calciatori.

Con tutte le tare del caso, a Madrid, invece, ha dimostrato di avere ancora occhio per il calcio. Quello difficile si perda! Valverde centrocampista laterale. Vinicius un po’ ala e un po’ seconda punta.

Così, tatticamente, il “ragazzo” di Reggiolo ha sistemato la squadra e ha vinto coppa Europea e campionato. Le due ali prescelte per far quadrare i conti poi hanno deciso la finale di Champions.

5. JURGEN KLOPP, LO SCONFITTO

Colpo di coda vincente, alla stregua di un Drago, ai danni di Klopp dunque… uno, il tedesco, che per il calcio e per i pensieri che propone alla platea pallonara merita sempre un applauso a prescindere.

Si consolerà anche lui con due secondi posti prestigiosi e qualche coppa nazionale vinta. Stasera, forse, reo di aver puntato troppo su dei senatori dalla gamba un po’ spenta.

Pur tuttavia, per un Signore arcimilionario che ambisce soltanto ad essere ricordato post mortem come una brava persona, me quito la gorra señor! Ce ne sono ancora pochi di esseri umani al mondo anche solo preoccupati di risultare semplicemente perbene.

Massimo Scotto di Santolo

61

LA ROMA VINCE LA CONFERENCE LEAGUE

Josè Mourinho, dato da molti per finito, riesce nell’impresa di portare il primo trofeo internazionale riconosciuto dalla Uefa nella bacheca dell’As Roma. La squadra della capitale italiana è divenuta la prima detentrice della terza e nuovissima competizione internazionale introdotta da Ceferin: la Conference League

1. UNA FINALE BLASONATA

Il bellissimo disegno del vignettista Mauro Biani fissa in modo molto rappresentativo l’euforia giallorossa che ha invaso la capitale d’Italia e quella d’Albania, Tirana. Dove si è svolta la finale della nuovissima competizione internazionale targata Uefa, la Conference League, la terza per ordine d’importanza e di creazione.

Le finaliste erano la Roma per l’appunto e il gloriosissimo Feyenoord. Una finale blasonata benché i contenuti tecnici non siano stati altissimi. Partita nervosa anche per i precedenti non simpaticissimi tra le due tifoserie, che ha impermalito il clima anche in campo.

2. UNA ROMA CAPARBIA

La Roma ha alzato i gomiti e alla fine è bastato proprio per questo per avere la meglio sul gusto per il bel gioco veloce degli olandesi.

Alla fine Mourinho trova sempre il modo, nella partita secca, di avere la meglio dei suoi rivali nonostante le sue trame offensive non siano esaltanti o almeno non eccellenti in modo continuativo.

E il modo lo scova tra le pieghe psicologiche dei match come fosse più un tennista che un allenatore di calcio.

3. MOURINHO IL CALCOLATORE

Quest’ultimo ab origine non definibile lo sport del diavolo, come invece lo è il tennis, né scientifico, come invece lo è il basket.

Eppure Coach Messina, pluripremiato allenatore di basket, una volta uscito dallo studio del tecnico portoghese, ha decontratto il suo pregiudizio baskettaro dopo aver verificato che di casuale nel calcio di Mou non c’è veramente nulla.

4. IL PROMETTENTE ARNE SLOT

Stavolta ne ha fatto le spese Arne Slot.

Allenatore olandese di sicuro avvenire, il cui lavoro ha già ricevuto riconoscimenti durante la sua esperienza all’Az. Ad Alkmaar, Arne, ha tirato fuori una vera e propria generazione di campioncini oggi sparsi per l’Europa: Boadu, Stengs, Wijndal, Koopmeiners… solo per citarne alcuni.

Slot ha ricevuto in dote anche al Feyer squadra altrettanto giovane. Da Senesi a Sinisterra, da Dressers a Kokcu, tutti ragazzi ammirati già da tempo in Olanda e ora da tutta Europa.

5. MOURINHO IL COMUNICATORE

Pur tuttavia, la loro gioventù ed esuberanza è stata travolta dalla marea giallorossa, ingrossatasi fino a divenire uno Tsunami sotto la splendida opera comunicativa di Mou, il quale ha reso tale finale di Conference una ragione di vita o di morte.

L’avesse persa, con un sudatissimo 6° posto in campionato, le ragioni della morte avrebbero prevalso su quelle della vita.

Quando però l’AlPacino degli allenatori, José da Setubal, entra nella modalità motivazionale di “Ogni maledetta Domenica”, è difficile che perda. Così quei centimetri che sono intorno a noi e la cui somma raccolta farebbe la differenza tra la vittoria e la sconfitta, tra il vivere e il morire, sono stati bruciati in un attimo, nel più classico dei carpe diem, da Zaniolo.

6. L’UOMO DELLA PARTITA: NICCOLO’ ZANIOLO

L’enfant prodige capitolino, talentuoso, bello e dannato, un po’ Panatta e un po’ Cassano, sfrutta un intervento bucato di un inadeguato centrale difensivo olandese (Trauner) e segna il gol decisivo.

Decisivo per il primo trofeo, riportato a Roma, dopo 14 anni; per il secondo trofeo internazionale della storia romanista dopo la risalente nel tempo Coppa delle Fiere.

7. UN TROFEO PER INIZIARE UN CICLO DI ALLENATORI PORTOGHESI?

Roma ha un nuovo imperatore e al suo seguito i centurioni… sebbene i meriti e le corone d’alloro se le intesti Mou, la prima pietra di quel che per i giallorossi si spera sia l’alba di un nuovo impero (born in the Usa) l’ha posata un altro portoghese, Daniel Fonseca.

Uomo di mondo, di stanza in Ucraina, coach sottostimato, che ha restituito ad un gruppo la dignità e l’orgoglio di combattere per una maglia individuandone modulo e posizioni che il vincente José ha ottimizzato.

Un pensiero doveroso se la squadra per 8/11 sua festeggia mentre Fonseca e la sua famiglia son dovuti scappare dagli affetti più cari in fuga da una guerra insensata.

Massimo Scotto di Santolo

91

PREVIEW: GLASGOW RANGERS – EINTRACHT FRANKEFURT

La finale di Europa League di quest’anno ha un sapore antico. Si sfidano due squadra dal valore nostalgico. Da una parte, il rinato dopo il fallimento Glasgow e dall’altro i tedeschi, grandi programmatori di calcio, del Francoforte. Tre amici scozzesi, di fede Rangers, a 50 anni di distanza si sono dati appuntamento per una nuova finale europea in terra di Spagna.

1. IL FALLIMENTO

È Fallito. Non c’è più nulla da fare. La Scozia così restava orba, priva della sua essenza calcistica, del the old firm derby. Glasgow Rangers, i protestanti, da una parte e il Celtic, i cattolici, dall’altra. Questione di religione, di fede, in quali colori credere. Entrambi gli stadi di Glasgow gremiti.

Si canta, si canta in onore di un’appartenenza e per ricordare alla vicina Inghilterra che la Scozia non avrà conquistato l’Europa come i club della Regina ma che il derby più antico e vero lo avrà sempre lei. E poi, improvvisamente, più nulla.

I Rangers sommersi dai debiti spariscono dal calcio che conta. E tutte quelle storie, tutti quei trofei divisi tra loro in blu e i rivali in bianco verde, risucchiate in un presente bastardo. Il passato di entrambi i club più famosi di Scozia è stato glorioso. Fatto anche di finali di Coppe di campioni o Uefa o Coppa delle coppe.

2. IL 1972

A noi però interessa il 1972… Lou Reed cantava “Perfect day”.

E 4 amici scozzesi, che ricordavano più i Beatles che tifosi rangers, si recavano a Barcellona – stadio Camp Nou – per la finale di Coppa delle Coppe tra Glasgow e Dinamo Mosca.

Avrebbero vissuto un giorno davvero perfetto: durante la notte e lungo le ramblas era tutto un risuonare “Follow Follow We Will Follow Rangers Everywhere Anywhere” mentre nel ventre del campo, dentro gli spogliatoi, il capitano scozzese John Greig fumava e si avvinghiava alla coppa persa già in due occasioni precedenti.

Poi più nulla di pari passo con la contrazione tecnica del calcio scozzese, il quale, invece, fino all’inizio degli anni 80 vantava buonissima competitività sia dei club che della Nazionale.

3. IL 2008: ULTIMA GIOIA EUROPEA PER I PROTESTANTI

Un sussulto insperato e terminale nel 2008. I Rangers centrano la finale di Coppa Uefa. Per l’ennesima volta affrontano una squadra russa, lo Zenit San Pietroburgo, ma stavolta perdono.

Non c’è nulla da festeggiare e da cantare. Le orecchie basse degli sconfitti diventano umiliazione quando 4 anni dopo il club annuncia il fallimento. Essere costretti ad una lenta risalita.

4. LA RISALITA

Ma Glasgow, a dispetto della sua intrinseca uggiosità, sa anche essere la casa del sole nascente come cantavano con successo il gruppo “The animals”.

8 anni dopo il crac, in modo tutto fuorché casuale se uno crede a certe dinamiche oscure del nostro sistema solare, il Glasgow è di nuovo in finale. Finale di Europa League, s’intende.

Esattamente al ricorrere del cinquantennale dall’ultimo trofeo vinto dai Rangers in campo internazionale. Alla guida dei Royal blu c’è uno che il Camp Nou, e non soltanto quello, lo ha arato: Giovanni Van Bronckhorst; il quale ha fatto in tempo anche a diventare idolo dell’Ibrox Stadium. Terzino sinistro olandese dalla grande carriera e ora allenatore del Glasgow Rangers.

La squadra non è la favorita, neanche della finale, ma ha messo in fila, tra le mura amiche di Ibrox, tutte le competitors più accreditate incontrate sul suo cammino.

5. IL GIOCO DEI ROYAL BLUES

Il gioco è semplice. Si spinge sulle fasce fin quando non si sfonda palla al piede o con cross puliti non si trova la testa dell’attaccante. Ci pensano le ali profondamente britanniche ma soprattutto i terzini.

Un sinistro e un destro le cui proprietà balistiche incantano: un croato, Barisic, e un inglese, Tavernier. Quest’ultimo, ormai trentenne, tira punizioni e calci di rigore ed è il difensore più prolifico d’Europa con 18 gol e 16 assist.

In mezzo al campo, quando ne ha e sta bene, Aaron Ramsey, cioè il corridore campestre più forte della storia del calcio con altri muscoli e minore propensione a frequentare l’infermeria.

Davanti gli scozzesi si concedono il lusso di avere El bufalo Morelos. Un attaccante dal baricentro basso ma dalla possente struttura e dal carattere del tutto incontrollabile, un idolo delle folle, che però ahinoi non sarà presente in finale per colpa di un infortunio muscolare.

6. L’AVVERSARIA, EINTRACHT FRANCOFORTE

La finale è del tutto insospettabile contro un’altra cenerentola, l’Eintracht Francoforte.

Squadra tedesca dalla programmazione calcistica invidiabile che ha eliminato un certo Barcellona a casa loro, lì dove il Glasgow ha trionfato per l’ultima volta in campo europeo.

Sparring partner, l’Eintracht, perfetto coprotagonista di una sfida sportiva nostalgica, molto anni ’70, di quando il calcio era un’eterna sorpresa nei suoi risultati e il mondo ancora diviso in due da una cortina polverosa di piombo e di gesso e sui muri color ocra qualcuno ci poteva rimanere secco.

Il proscenio della sfida è affidato nuovamente alla Spagna. Stavolta Siviglia, stadio Pizjuán. E per il dopo partita vincitori e vinti possono stare tranquilli: le stelle son le stesse di cinquant’anni fa e vanno a dormire tardi in Andalusia come in Catalogna.

7. I NOSTRI RAGAZZI

Chi manca?

I nostri 4 ragazzi! Che avevamo lasciato, giovani, a Barcellona mentre si godevano l’ebbrezza di una prima vittoria internazionale ma, inconsapevolmente, anche l’ultima.

In realtà ci sono anche loro. Eccoli qua in foto, oggi più di ieri, con la stessa voglia immutata di cambiare le idee alla Terra accanto alla propria rinata squadra.

A questo giro però sono in 3. Eh già, uno non c’è più… si è impiegato in banca. Si è arreso! Ma stasera ci sarà un popolo sugli spalti che combatterà anche per lui.

Massimo Scotto di Santolo

52

IL MILAN VEDE IL TRICOLORE

Il Milan di Stefano Pioli non si ferma più, vince come una schiacciasassi e si avvicina a grandi passi ad uno storico per quanto insperato tricolore.

1. UNO SCUDETTO INATTESO

Il Milan veleggia verso uno storico scudetto. Storico perché sognato ma non fino in fondo programmato. Storico perché verrebbe vinto da non favoriti, nemmeno in prima fila accanto alla macchina in pole position, sicuramente la prima della seconda fila.

2. DAVIDE CALABRIA: IL CAPITANO

Il Milan ha trovato il suo Omero stagionale, che cantasse le sue gesta e accalcasse quanta più attenzione possibile intorno alla causa rossonera, nel cantore Rafael Leao.

Le muse ispiratrici del racconto, tessuto in vesti tricolore dall’ala porteghese, sono interpretate dall’anima del Diavolo, tutta italiana, un po’ dirigenziale e un po’ di campo.

Il talento di Leao è stato aspettato alla pari di capitan Calabria. Presente quando in salute. E la cattiveria con cui gioca sopperendo a limiti fisici e tecnici fa impallidire il ricordo che il popolo calcistico italiano aveva di lui. Ossia di un terzino completamente in confusione e spaventato da un severo San Siro pre-Covid.

3. IL NUOVO DE ROSSI: SANDRO TONALI

Al suo fianco, nonostante la giovanissima età, Alessandro Tonali. Rossonero di fede anche se cresciuto in quel di Brescia. Lui si ispira a Gattuso ma alle dipendenze delle rondini di Cellino è un regista di grande temperamento atletico e caratteriale.

Il Milan lo acquista con prestito e riscatto. Sbarca a Milanello e per un anno sembra travolto da un’emozione troppo grande da gestire. Alla fine la dirigenza milanista non si fa impressionare dalle prestazioni spaurite, punta tutto sull’impegno e la diligenza dimostrata dal ragazzo, sulla sua indiscutibile appartenenza.

Lo riscatta; e appena la transazione va a buon fine, Tonali cambia, cambia tutto del suo gioco, descrivendo lui stesso a suon di prestazioni il suo ruolo. Calciatore che ricorda terribilmente il primo Daniele De Rossi. Di spada e di fioretto.

Davanti alla difesa ma anche inserimenti, meno fisici del Daniele romanista ma più carsici (e insidiosi) da mezz’ala alla Perrotta che non è. E sotterraneo è rispuntato fuori dall’erba, quando lo scudetto andava decidendosi, segnando un paio di gol che molti amatori della sfera in cuoio avrebbero voluto segnare mentre piedi e passioni impazzavano come ormoni durante l’infanzia e l’adolescenza.

4. GLI ARCHITETTI: ZVONIMIR BOBAN

E se Calabria ora dà il tono, il là all’orchestra, mentre Tonali esplode i do di petto rifinendo il lavoro di lotta dei compagni e le stesure musicali del direttore Leao, chi quel componimento lo ha buttato giù su carta tra notti insonni e ricordi nostalgici siede dietro una scrivania: fa di nome Paolo e di cognome Maldini.

Da calciatore, da bandiera dello stesso Milan, ha vinto tutto pur definendosi durante il periodo pandemico, interpellato in una live Instagram di Bobo Vieri, il più grande perdente di tutti i tempi. Lui al Milan è stato richiamato senza alcuna esperienza dirigenziale da un croato.

Un calciatore croato che vedeva la vita in modo sostanzialmente diverso da una persona normale. Pertanto, la sua visione di calcio non poteva che essere esagetaratamente sensibile e quindi solitaria, incompresa. Questo croato si chiama Zvonimir Boban e con Paolo qualcosa in campo, con indosso la maglia rossonera, ha vinto. E’ lui che ha architettato un Milan in odore di scudetto.

Poi ha ringraziato tutti e se n’è andato con la stessa calma e consapevolezza, me lo immagino, in forza delle quali attraversava l’Europa in macchina da Milano negli uffici Sky a Nyon negli uffici Uefa e infine Zagabria presso casa sua ascoltando la divina commedia di Dante. Chissà se recitata da Gassman… noi in Italia l’abbiamo amata con quella voce lì.

5. GLI ARCHITETTI: PAOLO MALDINI

Boban è andato via, ha lasciato due o tre legati.

Maldini, come ai tempi dell’esordio in maglia Milan sotto la guida di Liedholm, rimasto lì precoce a dover nuotare o affogare senza alcun insegnamento se non quello di giocare da predestinato qual è, ha composto una meravigliosa melodia diventando in un amen il più apprezzato dirigente sportivo italiano per aplomb e lungimiranza.

Si perché quei legati balcanici, lui li hai tenuti a sé stretti: si è fidato di quel gruppo che prima della pandemia sembrava fosse buono per l’attuale Conference League e lo ha trasformato, assumendo Ibrahimovic, in una sporca dozzina.

Quant’è vero che gli attacchi vendono i biglietti e si prendono i titoli dei giornali, mentre le difese vincono i trofei. E Paolo di quelle difese è stato il più grande interprete della storia del calcio. In giacca e cravatta ha solo continuato un percorso già tracciato.

Massimo Scotto di Santolo

53

GENOA QUASI IN B: ONORE A BLESSIN

Il Genoa perde il derby della lanterna, la stracittadina di Genova, ed è condannato dall’acerrima rivale della Sampdoria ad una quasi sicura retrocessione.

1. IL DERBY DELLA BEFFA

Probabilmente il Genoa andrà in B, nel modo più amaro possibile, ossia perdendo un derby salvezza contro la Sampdoria. Sconfitta beffarda per 1-0. Nessuno poteva immaginarlo. Gli eterni rivali blucerchiati, superiori nelle individualità, arrivavano da una crisi nera; una crisi di gioco e di convinzione. Coach Giampaolo sembrava ormai il prete chiamato a procedere con l’estrema unzione.

Nessuno poteva immaginare nemmeno il finale drammatico: Criscito, eterno capitano rossoblu, che sbaglia il rigore dell’1-1 durante i minuti di recupero. E sarebbe bastato anche un punto alla compagine genoana per cullare ancora speranze di salvezza.

2. CHI E’ ALEXANDER BLESSIN?

Se però c’è stato un ultimo ballo, un ultimo ribollire di contrastanti emozioni per un gioco così banale e allo stesso tempo globale, la gradinata rossoblu del Grifone lo deve al signore in foto: Alexander Blessin.

Il quale, pur non senza qualche defaillance, ha rianimato con il defibrillatore un ambiente morto e un’armata Brancaleone. Tecnico tedesco, giovanissimo per gli standard del calcio italiano, scuola Redbull. Kloppiano convinto.

Per vincere nel calcio professionistico bisogna portare ai massimi livelli la poesia e l’agonismo del calcio dilettantistico. Questa potrebbe intendersi come sua massima. Furore agonistico, caos organizzato… mai mollare.

3. BLESSIN, EROE ROMANTICO

Blessin ha creato in pochissimi mesi un ambiente da salvezza lì dove ormai c’era solo mesta rassegnazione alla retrocessione.

E dopo non aver centrato l’obiettivo, che sull’onda di un entusiasmo contagioso pareva ormai alla portata, Alexander rimane in tribuna con moglie e figlia, come uno di noi, a ragionare sui perché della sconfitta, sugli errori di un obiettivo difficilissimo e sfumato sul più bello nonostante ci credessero tutti a dispetto dei risultati conseguiti di giornata in giornata.

Rimane sugli spalti di Marassi a prendersi la brezza marina addosso, la tristezza dei marinai intorno e a condividere con loro la mulattiera del mare verso nuovi e futuri orizzonti. Tutti possibili e realizzabili con la nuova proprietà, quantomeno stabile dopo i disastri pluriennali di Preziosi.

4. BLESSIN E L’ITALIA

Se dovesse rimanere alla guida del Genoa anche in B, sembrerebbe proprio che il calcio italiano abbia acquisito un nuovo (positivo) personaggio, al quale ha regalato lo stesso football tricolore l’amore per questo gioco.

1989, Neckarstadion di Stoccarda. Stoccarda – Napoli 3-3. Sulle tribune tinte d’azzurro emigrante e orgoglioso si canta: porompompero-però-porompompò. Blessin è lì con loro, con i partenopei, guarda attonito l’amore per questo sport e il suo nunzio vincere la Coppa Uefa. Canta gli stessi Cori vesuviani e decide di diventare un mister per gioco e per passione.

Infine la vita, maliziosa, sembra avergli regalato consacrazione proprio in un’altra città di mare, Genova, fino a poco tempo fa gemellata con quella Napoli che, quando conviene, sussume l’Italia tutta. Blessin-Genoa è una storia che gradiremmo continuasse ad esistere anche in serie B, grazie!

Massimo Scotto di Santolo

50

KVICHA KVARATSKHELIA

Il primo acquisto della stagione 2022-2023 del calcio italiano è del Napoli. Infatti, il calciatore georgiano Kvicha Kvaratskhelia è ufficialmente un nuovo giocatore azzurro!

1. UN NOME IMPRONUNCIABILE

Innanzitutto, è opinione diffusa in quel di Napoli citàà che sia opportuno trovargli un soprannome. ADL, che lo ha annunciato nel primo pomeriggio, ha proposto Giorgio. Piacerebbe, invece, Gennaro.

2. CHE TIPO DI GIOCATORE E’?

Che giocatore è? Noto appassionato, lo scrivente, di calcio russo e georgiano, più o meno come Battiato dello spiritualismo indiano, può dirvi che è un’ala sinistra destrorsa. Dribbla qualsiasi cosa trovi sul suo cammino, compreso talvolta sé stesso.

Transfermarkt, che invece archivia i dati anche del campionato lettone, dà idea di un giocatore funambolico ma non ancora troppo incisivo. Pochi gol e pochi assist. Ragazzo alto abbondantemente sopra il metro e 80 sembra dotato di un ottimo tiro, che spesso mette da parte per dribblare un altro po’.

Non è un calciatore che ama andare senza palla, anzi, piuttosto, ce ne vorrebbero due: una per lui e un’altra per i restanti 21 calciatori in campo. Tuttavia, in campo aperto ha una rara velocità e progressione. Se avrà modo di mettersi in mostra, ci si accorgerà che è un superatleta. Gambe alla mennea, caviglie alla Nureev quando si solleva sulle punte per tentare il dribbling.

3. L’ACQUISTO

Di proprietà del Rubin Kazan, si è svincolato sotto pressione del governo georgiano, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, per concludere la stagione alla Dinamo Batumi – la Juventus georgiana – da cui il Napoli lo ha acquistato per un carico di palloni e un paio di sacchi di sabbia.

4. CHI RICORDA?

Il look e le basette lunghe ricordano, per i più acculturati, gli intellettuali ottocenteschi, mentre, per i più calciofili, Gigi Meroni. Fantasista granata smaccatamente sessantottino, pittore, e stravagante fantasista. Soleva attraversare le strade di Torino con una gallina al guinzaglio e una compagna al suo fianco sposata e in attesa di annullamento del matrimonio. Scandaloso, Gigi, fuori e anche dentro il campo dove era una spanna sopra tutti.

Destinato a diventare leggenda del calcio italiano e della Torino granata, morì prematuramente investito da un auto il cui conducente era un giovane borghese dell Torino bene; “l’omicida” diventerà poi presidente del Toro in età adulta. Gigi per la sua brevissima seppur iconica vita e carriera venne soprannominato la farfalla.

Anche per come volava leggiadro ed esteta sul campo a dipingere su tela pensieri e traiettorie che obiettivamente solo lui vedeva.

Che Gennaro, Giorgio o semplicemente Kvicha possa divenire la farfalla azzurra.

Massimo Scotto di Santolo

72

IL CALCIO DI NEGELSMANN

Bayern Monaco-Salisburgo 7-1: uno spunto per parlare del calcio di Negelsmann e dell’evoluzione teutonica di questo sport.

1. IL MODO

Ieri sera il Bayern di Julian Negelsmann ha schiantato il vivace Salisburgo, assicurandosi così i Quarti di finale di Champions League.

Il modo con cui i tedeschi hanno superato gli austriaci è descritto ottimamente dalla formazione in sovrimpressione.

Immediata soggiunge la riflessione secondo la quale mister Julian stia veramente portando avanti l’ultima vera rivoluzione tattica possibile nel mondo del calcio.

2. L’ULTIMA NOVITA’

Il sostituire gli stopper con i terzini, i fluidificanti con le ali, lo spostare la vera regia dal centrocampista a quello che ricorda il vecchio libero (Süle nel caso di specie) – l’unico ormai in grado di poter vantare ancora visione del campo a 180° al cospetto del rispolverato pressing uomo su uomo – e/o sussidiariamente al portiere… in pratica l’assegnare i ruoli difensivi a tutti coloro che possono interpretarlo nella maniera più offensiva possibile sembra la strada tracciata da Negelsmann.

Impressiona leggere della formazione di ieri sera Gnabry e Coman, nominalmente ali d’attacco se non mezze punte, scelti per svolgere compiti nati con Giacinto Facchetti.

3. DA UNA IDEA DI PEP

Impressiona la continuità con cui il Bayern stia cercando di perseguire una strada del genere che nemmeno lo sperimentatore Guardiola ha saputo intraprendere né in Baviera né a Manchester con tale pervicacia.

Pep pur avendo usufruito di questa interpretazione iperoffensiva del calcio ha sempre attinto ad essa in situazioni di svantaggio, quindi in circostanze emergenziali.

4. L’IMPORTANZA DELLE FASCE

Dopo il portiere tecnicamente associativo, sembra evidente che lo sfogo sulle fasce, costantemente concesso alla manovra avversaria da tutte le squadre calcistiche europee, e la nascente esigenza consequenziale di allocare risorse tecniche decisive sui lati esterni del campo rappresentino la vera frontiere da scavalcare per entrare nel football contemporaneo.

5. IL CALCIO REPLICANTE

Quanto è replicabile un modello del genere altrove? Non si può sorvolare, ovviamente, sulla qualità dei giocatori a disposizione di Negelsmann.

Eppure l’impressione è che, a parte l’uso smodato del cash sul mercato, attraverso l’impiego di uno scouting pignolo è possibile l’emulazione di tale sistema.

I nuovi calciatori appaiono morfologicamente predisposti alla rivisitazione delle funzioni calcistiche proprie di determinati ruoli. Il calcio tradizionale, dal canto suo, resiste per fortuna contro l’avanzata di un calcio tecnologico, oserei dire robotico… in provetta!

Massimo Scotto di Santolo

31

CIAO PINO WILSON!

E’ morto Giuseppe Wilson, storico capitano della Lazio scudettata di Maestrelli e bandiera mai ammainata del club biancoceleste. Se ne va il leader di una banda calcistica che ha messo paura all’Italia tutta.

1. VIA DEL CAMPO

Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.

Così, durante gli anni del boom economico italiano, De André ricordò ai suoi ascoltatori come la poesia potesse ritrovarsi anche lì dove parebbe esserci solo miseria. Beh, la storia di Giuseppe Wilson, detto Pino, nasce e si sublima in un contesto tutt’altro che adamantino, benché indomabile sia stato il suo carattere e il suo modo di stare al mondo.

Durezza e larghezza delle spalle, petto in fuori, che lo hanno contraddistinto nella sua vita da calciatore ma che non hanno mai intaccato una certa eleganza nel maneggiare la sfera e nell’interpretare i movimenti difensivi. Pino è stato un figlio della seconda guerra mondiale e della Napoli bellica, capace rispetto a tutte le altre città italiane di segnare differenza su come trattare gli invasori e i liberatori.

La città partenopea ha concupito i secondi, masticandoli, mantenendo in bocca il sapore del nuovo mondo o dell’uggiosità britannica ruminata ma una volta andati via, i liberatori, sputati via dal buco di un Vulcano che li aveva accolti senza minacce… come se dal mare che bagna le sponde non fosse giunta alcuna nave né da Ovest né dal Nord.

2. PINO CALCIATORE: GLI INIZI ALL’INTERNAPOLI

Mentre Napoli informava chi arrivava che la città era già stata liberata dall’invasore, alle truppe alleate venivano offerti soltanto amori e occasioni. Pino, infatti, nasce a Napoli da mamma Napoletana e papà inglese di stanza sotto al Vesuvio.

Sceglie la carriera di calciatore che trova rampa di lancio nella seconda squadra di Napoli. Agli appassionati del calcio provinciale non suonerà sconosciuto il titolo “Internapoli”. Gloriosa seconda squadra a difesa delle mura azzurre, domiciliata presso lo Stadio Collana sito nel quartiere collinare del Vomero.

3. L’INCONTRO CON CHINAGLIA

Sede che la Ssc Napoli lasciò in omaggio all’Internapoli dopo la costruzione del San Paolo, oggi Maradona #DAM. Wilson, dunque, si ritrova in C in una società all’epoca di categoria in compagnia di un attaccante lungo e largo. Anch’egli italiano: lo chiamano Giorgio e di cognome fa Chinaglia ma il suo soprannome è Long John per quelle caratteristiche fisiche così verticali.

Figlio di una Italia emigrante anche nell’immediato dopoguerra, dopo una parte dell’infanzia vissuta con i nonni in Toscana, Giorgio raggiunge i genitori a Cardiff dove diventa calciatore, rugbista e cameriere del ristorante che il padre ha aperto dopo aver sudato nelle miniere gallesi.

Wilson e Chinaglia, un terzino tecnicamente dotato e un attaccante tanto potente quanto sgraziato. In C sanno mettersi in mostra sui tranquilli fianchi di un quartiere residenziale napoletano. Giovani e rampanti si guadagnano entrambi la chiamata di un’aquila ferita, la Lazio.

4. LA LAZIO DI MAESTRELLI

Gloriosa società, quest’ultima, nel frattempo finita in B e impegnata a progettare la risalita seguendo la pacata guida di un tecnico gentiluomo quale Tommaso Maestrelli.

Quest’ultimo costruì una squadra tecnicamente dotata, fisica e spigolosa, in grado di arrivare seconda nel campionato cadetto, raggiungere comunque la promozione e in un amen giocarsi nei due anni successivi di A gli scudetti contro Juventus, Inter etc.

Il secondo anno di serie A fu quello buono: con Wilson in difesa e Chinaglia in attacco, oltre ad altri indimenticati eroi, a Roma si festeggia il primo tricolore biancoceleste.

5. UNO SPOGLIATOIO IN SUBBUGLIO

Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori

La guerra e le sue trame nefaste avevano dato vita a Pino. Un’altra guerra, che in realtà andava di scena ogni santo allenamento, aveva regalato lo scudetto alla Lazio.

Infatti, la vittoria della Lazio e di Wilson e Chinaglia tutto fu tranne che una favola con il lieto fine.

Pino e Giorgio, i due figli del mondo infiammato dagli strascichi della guerra, entro quel team capeggiato da mister Maestrelli avevano creato una vera e propria fazione atta a combattere e intimidire un’altra avversaria… la quale aveva una sola controindicazione: indossava la loro stessa divisa sociale ed era guidata da Martini, uno degli artefici della risalita dalla B alla A insieme a Wilson, e da un’altra anima che il calcio ha lasciato alla memoria dell’Italia di piombo, ossia l’instancabile mediano Re Cecconi ucciso da un colpo di pistola perché creduto erroneamente ladro da un gioielliere suo amico.

E le pistole erano le cose più ricorrenti nei ritiri della Lazio di Maestrelli, oltre al pallone s’intende. Schemi, scazzottate e poligoni: Wilson vincerà uno scudetto da capitano di una squadra dilaniata da battaglie intestine, da orgogli indomiti e cuori giganti.

6. L’IMPROVVISA FINE DELLA GIOVENTU’

Una volta raggiunto l’apice, con l’Italia del calcio ai piedi di una banda rassomigliante quella sporca dozzina, Wilson che aveva raggiunto la sua fortuna vide sparire tutto in un attimo.

Il sordo rumore di una sliding doors che toglie sorrisi e ricchezze svuotando una vita in ascesa. Maestrelli ricevette una diagnosi terribile: un tumore che gli avrebbe lasciato pochi mesi di vita. E una squadra ancora in grado di dare tanto si spense d’un tratto. In due anni dal tetto d’Italia ai bassifondi della classifica.

Una cura sperimentale allungò la vita ancora per poco a Maestrelli, giusto il tempo per salvare la Lazio e lanciare Bruno Giordano che a Napoli, da dove Pino partì per vincere il primo storico scudetto biancoceleste, arrivò per firmare con gol e assist un altro primo storico scudetto… quello azzurro del Ciuccio.

7. CIAO PINO

Oggi Pino ha lasciato questo mondo ma soltanto per ricostruire con i suoi migliori nemici la banda che terremotò l’Italia del pallone.

Mio nonno, nel raccontarmi dell’Internapoli e della Lazio dello scudetto, aveva ragione a dirmi che non sarei mai stato più figlio unico. Ormai mi ero convinto anche io che Wilson e Chinaglia sarebbero potuti passare all’Internapoli o, perché no, anche al Frosinone.

Massimo Scotto di Santolo

33

Napoli – Bologna 3-0: cosa resterà degli anni ’80?

Il Napoli riaggancia il Milan in vetta alla classifica di serie A. Lo fa abusando di un Bologna rimaneggiato e risultato non impegnativo come avversario. I rossoneri e i partenopei, pari a quota 28 punti, hanno creato il vuoto intorno a sé. La prima è l’Inter a -7. Il Napoli ha la miglior difesa con sole tre reti subite mentre il Milan il migliore attacco con 23 reti. Sembra improvvisamente tornati alle sfide di fine anni ’80 dove Maradona sfidava il Milan di Sacchi per i massimi traguardi calcistici.

1. Napoli – Bologna

Il Milan nell’anticipo del turno infrasettimanale, di Martedì, vinceva soffrendo indicibilmente contro il nuovo tremendismo granata firmato da Juric. I rossoneri si portavano a 28 punti e lasciavano al Napoli, impegnato il Giovedì, l’onere di dover rispondere.

Il Napoli per dichiararsi presente alla volata in vetta avrebbe dovuto battere il Bologna. Battuto nel turno precedente proprio dal Milan all’interno di una partita romanzo che ha visto i felsinei tenere testa alla squadra di Pioli nonostante la doppia inferiorità numerica. Gli infortuni e le squalifiche hanno consegnato alle fauci di Spalletti un Bologna raffazonato in questa sua nuova versione da 352.

L’assenza di Soriano, il regista ombra della squadra, e di Soumarò, il perno della difesa a 3 e l’unico in grado nelle premesse di poter tenere la fisicità di Osimhen, e infine anche di Arnautovic, il centroavanti di manovra tanto richiesto da Mihaijlovic durante la sessione estiva di mercato, hanno indebolito parecchio il Bologna.

Il Napoli dal canto suo ha disputato partita sublime, schiacciando l’avversario dal primo all’ultimo minuto attraverso un recupero palla immediato e rinculate puntuali e vigorose. Capeggiate dal “pogbeggiante” Anguissa e da una squadra vogliosa di sbranare l’avversario.

2. I gol!

E così è stato: riconquista della sfera in avanti da parte di Lozano su passaggio errato in uscita da Svanberg. Il messicano serve Elmas che trasmette il pallone in modo veloce ma sporco al sinistro libero di Fabian Ruiz, il quale sia piuma che ferro prima addomestica docilmente lo strumento e poi lo calcia con veemenza e parabolica precisione sotto la traversa. Skorupski non può nulla ed è 1-0.

L’accerchiamento dell’area felsinea è costante, continua, perenne. Alla fine la persistente presenza degli avanti azzurri e soprattutto di Osimhen nei pressi della porta costringe i difensori bolognesi a marcarli sempre più vicini e stretti. In tal senso, la marcatura di Medel su Osimhen sembra inevitabile ma troppo svantaggiosa per il vecchio mediano cileno. Infatti, quest’ultimo per compensare i cm di altezza di differenza su un cross d’Insigne allunga una mano, colpisce la palla. Rigore. A fine partita per il Napoli ne saranno due. Entrambi legittimi ai tempi del Var. Il secondo su calcio netto ma non intenso di Mbaye allo stinco di Osimhen.

Insigne li realizza entrambi trasformandoli alla sua maniera. Tiro rasoterra e angolato alla destra del portiere. Il fatto che i tiri siano a pelo d’erba compensa la prevedibilità della scelta e quindi le potenziali partenze in anticipo sul proprio fianco destro da parte dei portieri. E questa doppietta dalla linea della carità ripristina serenità su una vicenda che stava diventando pruriginosa, cioè quella della poca freddezza dal dischetto del capitano azzurro.

3. cosa resterà degli anni ’80?

La vittoria del Napoli restituisce una sfida dal sapore antico, una lotta al vertice tra i partenopei e il Milan. Una competizione per lo scudetto che riporta i più nostalgici agli anni non necessariamente meravigliosi – ma si sa il tempo del proprio genitore è sempre più verde – ma fortemente ricchi per una Italia borghese centrica e benestante. Quel benessere si manifestava nel calcio dove un costruttore meridionale, Corrado Ferlaino, poteva far sognare una Capitale del Sud, per l’appunto Napoli, costruendo una squadra destinata a far sudare le cd sette camicie al dream team ideato da Silvio Berlusconi.

Entrambe le compagini potevano permettersi giocatori in grado di vincere con agio Coppa Campioni e Coppa uefa – rispettivamente il Milan e il Napoli -. Oggi le squadre appaiate in vetta alla serie A sono ai margini del jest set calcistico internazionale. Il Napoli però da anni porta avanti un calcio internazionale, di ampio respiro offensivo. Il Milan, di nuovo potente, pare abbia una mentalità più italiana inculcata da Pioli. Squadra dedita alla lotta, al contropiede, che ama ricavare gol, vittorie e punti nella spazzatura della partita, sui duelli individuali vinti con fisicità e temperamento.

Per picchi di gioco, i rossoneri anche meglio del Napoli ma per continuità del dominio territoriale e soluzioni offensiva a disposizione gli azzurri si lasciano preferire. Eppure, in netta controtendenza alle identità delle due squadre è il Milan ad avere il migliore attacco mentre il Napoli a migliore difesa. I numeri difensivi napoletani sono spaziali: 3 gol subiti in 10 partite. A fine anno, con una media del genere, sarebbero appena 12.

Il Milan, ora, attende una doppia sfida non facile: prima la Roma del sempre più “liedholmiano” Mourinho e poi il derby contro l’Inter. Neroazzurri campioni in carica, indeboliti dalle cessioni estive di mercato e dallo sfortunato caso di Eriksen, ma con l’orgoglio e la rosa ampia dei primi della classe. E quindi non comodi, i ragazzi di Simone Inzaghi, a -7 dalla vetta.

Il Napoli, invece, affronterà contestualmente la Salernitana di Colantuono, che evoca derby regionali di anni non felice per i colori partenopei, e poi quell’Hellas Verona con cui i ragazzi di Spalletti persero qualche mese orsono qualificazione Champions e dignità. È un dolore nascosto giù nell’anima!

Massimo Scotto di Santolo

47

Fiorentina – Napoli 1-2: le sette meraviglie azzurre

Koulibaly sconfigge il razzismo della curva Fiesole mentre il Napoli batte la Viola in casa sua, all’Artemio Franchi. Secondo alcuni, gli azzurri non avrebbero brillato. Il valore della Fiorentina attuale esalta un Napoli stanco ma di rara personalità e lucidità. I gigliati perdono la battaglia del tifo e la partita. Da poco, il presidente italo americano Commisso ha annunciato che Vlahovic non rinnoverà e a fine stagione andrà via. In realtà, Mr Commisso, scegliendo Italiano al posto del permaloso Gattuso, ha intrapreso strada di lungimiranza calcistica. Tale soluzione programmatica già sta fruttando i suoi dividendi. La Fiorentina potrebbe (nemmeno troppo sorprendentemente) scalzare a fine anno una delle sette sorelle dalla Zona Europa. Il calcio offensivo e verticale di Italiano, informato per stessa ammissione del mister ex Spezia di principi e nozioni zemaniane, produrrà tanti punti.

1. Un grattacapo complicato

La trasferta toscana per il Napoli si è sin da subito proposta complessa. Gli azzurri trovavano una blasonata e rinascente squadra, come la Fiorentina, alla fine di un ciclo terribile di 7 partite in meno di un mese. Si è giocato ogni tre giorni. Inoltre, il Napoli arrivava al match con qualche incertezza dovuta dalla prima sconfitta stagionale rimediata in Europa al cospetto della bestia nera Spartak Mosca. La squadra russa ha espugnato il Maradona stadium. Il club sovietico fu anche l’ultimo Napoli pre-aureliano in Coppa Campioni, l’ultimo vagito internazionale del gruppo partenopeo guidato dal D10S.

La Fiorentina, dal canto suo, offriva allo studio di Spalletti pressing alto, verticalità offensiva nascente da un recupero palla alto e furibondo. L’ideatore di questo calcio si chiama Vincenzo Italiano e predilige giocare con due difensori centrali sulla linea del centrocampo, due terzini sganciati contemporaneamente e due ali che entrano dentro al campo a dialogare con due mezz’ali destinate a stoccare da fuori o ad inserirsi nell’area di rigore per affiancare l’unica punta. In questo caso il temibilissimo giovane serbo Dusan Vlahovic, il quale al cospetto del pari età Osimhen ha evocato negli occhi dei media e nel cuore dei tifosi sfide tra futuri fuoriclasse.

In realtà, Italiano ha leggermente modificato il suo assetto base in fase offensiva sperimentato a La Spezia. Infatti, la scelta a destra di puntare su un’ala come Callejon che si tira fuori dal gioco tra le linee per dare sfogo in ampiezza alla manovra dei compagni apre un corridoio che il terzino spagnolo, di proprietà del Real Madrid, Odriziola sfrutta con verve e dinamismo. Alla fine, il trequarti è molto più quest’ultimo che Callejon.

2. La tattica di Italiano

Il pressing, dunque, che il Napoli si trova di fronte è un muro violaceo quanto la tumefazione del volto della squadra partenopea a sbatterci contro lungo tutto il primo tempo. Italiano schiera una linea di sei uomini il cui compito è giocare sia sulla figura degli avversari ma quando la palla passa ai difensori del Napoli, centrali o terzini, allora i ragazzi in Viola devono muoversi sulle linee di passaggio. Lo scopo tagliare fuori dal gioco Zielinski e Osimhen. Il polacco, affogarlo nel marasma tambureggiante del centrocampo; il nigeriano, costringerlo ad essere cercato con palla addosso. Che tutto si può dire di Osimhen fuorché abbia la dimestichezza del controllo e del lavaggio di una sfera sporca lanciatagli sul corpo.

Come si può vedere l’intento chiaro della Fiorentina era spaccare in due il Napoli, tagliando qualsiasi rifornimento a Zielinski e Osimhen lavorando sulle linee di passaggio. Tattica riuscita sola in parte.

La tattica funziona. Il Napoli sembra spaesato e in affanno sia mentale che fisico. Anguissa, ad esempio, rincorre per 45 minuti l’opacità storica di Bakayoko. Zielinski sparisce dal campo e mai ci rientrerà salvo lasciare ai posteri una singola e decisiva giocata, di cui parleremo, nel bel mezzo del nulla cosmico della sua partita.

La Fiorentina, che capitalizza sempre e comunque nei primi 45′, ne approfitta e prima impegna Ospina con Pulgar dalla distanza. Poi sullo sviluppo da calcio d’angolo beffa la marcatura a zona del Napoli, sensibile sul secondo palo, trovando il piede di Pulgar inopinatamente solo il piatto di Vlahovic che riversa in area piccola il pallone sul quale Martinez Quarta segna il vantaggio fiorentino.

3. Il fuoriclasse Osimhen

Il Napoli è sotto. Vlahovic con un assist si sta assicurando la sfida tra baby fenomeni con Osimhen. Ruiz pedinato ad uomo da Pulgar ha smarrito sapienza e dominio del gioco eppure su giocata codificata: palla in avanti di Mario rui per Insigne, avanzamento della linea difensiva fiorentina perché il pallone durante la trasmissione della palla si può intendere coperto, palla indietro d’Insigne per Fabian Ruiz ed immediato lancio nel corridoio laterale di sinistra per Osimhen accoppiatosi con Quarta.

ll difensore argentino, pur centrale di sinistra, aveva coperto la profondità alla sua destra su Osimhen. Il compagno di reparto Milenkovic, infatti, era impegnato ad aggredire in avanti Zielinski.

Zona 1 e Zona 2 gli unici spazi liberi concessi da Zielinski, il quale mai ne ha saputo approfittare. I corridoi, evidenziati dalle frecce, invece lo spazio che la Fiorentina ha scelto di concedere ad Osimhen.

Il lacio di Fabian è preciso. Quarta non ha una chance di tenere Osimhen invlatosi in campo aperto. Alla fine l’argentino opta per il male minore, il rigore. E sul dischetto si presenta Insigne, in questo inizio di campionato non tranquillo dalla linea della carità. Infatti, il capitano azzurro sbaglia ma Lozano ribadisce in rete il gol del pari.

4. Salgono in cattedra Koulibaly e Rrahmani

Il pareggio improvviso ringalluzzisce il Napoli. La Fiorentina, invece, proverbialmente inizia a calare in modo progressivo. Gli azzurri, tuttavia, famelici approfittano di un calcio piazzato dalla trequarti destra. Sceneggiata alla Mario Merola di Spalletti che impone a Zielinski di far calciare Lorenzo a giro di destro. Il polacco si allontana per poi riavvicinarsi nonostante i moniti del suo allenatore a stare lontano. Poi Piotr con abbagliante velocità calcia di sinistro, lui che è destro, punizione docile ma precisa tra linea dormiente della Viola e dell’incredulo Dragowski. La traiettoria incontra la testa di Rrahmani che ormai in maglia Napoli ha preso gusto nel segnare. E’ 1-2.

Ci si aspetta un secondo tempo rampante, soprattutto da parte della Fiorentina. In realtà il pressing ultraoffensivo di Italiano, sebbene meno veemente di quello offerto contro l’Inter, mantiene un costo psicofisico. Il Napoli dal canto suo ha una grande voglia di gestire e colpire in contropiede. Così si abbassa ma non commettendo l’errore del primo tempo, dove abbassando Zielinski in un centrocampo a 3, il regista avversario trovava troppo campo e troppe idee poi da calmierare. Spalletti sceglie di difendersi con il possesso palla, dapprima, e poi con il 442 o 4231, come dir si voglia.

E in questa fase gestionae Koulibaly e Rrahmani vincono ogni sorta di duello possibile e immaginabile. Il pepe ad un secondo tempo in cui la scelta è tra il finire 1-2 o aspettarsi l’ennesimo e definitivo allungo del Napoli lo cospargono Insigne e Koulibaly. Il capitano esce sbraitando. Nulla di grave. Quanto basta per farsi richiamare dagli osservatori perbenisti e per far ricamare certa stampa voyeuristica.

Poi colui che un tempo era una montagna troppo alta da scalare, Kalidou Koulibaly il k2, è divenuto grazie alla narrativa spallettiana il comandante. E il comandante K2, uscendo dal campo, sente offese rivolte al suo colore della pelle. Scimmia o chissà quale altra oscenità gridano dalla curva Fiesole. Kalidou li sfida. Lui ha già vinto. Si spera che ora lo faccia anche la serie A, non con semplice solidarietà ma perseguendo penalmente i razzisti che alle cime di Koulibaly veramente non voleranno mai.

Massimo Scotto di Santolo

33