Sampdoria – Napoli 0-4: Napoli, gimme five

Secondo 0-4 consecutivo. E’ un Napoli imbattuto e scintillante. Trasferte insidiose erano quelle di Udine e Genova ma il Napoli ha maramaldeggiato in casa sia dell’Udinese che della Sampdoria. Quanto il Napoli è forte lo si scoprirà nel momento delle difficoltà. Ad oggi è ingiocabile; ingiocabile il Napoli, perché si esalta non solo nella giocata offensiva ma anche nella capacità di soffrire di fronte alla bravura avversaria.

1. Il primo tempo

Al momento il Napoli è ingiocabile. Quando finirà la striscia di vittorie consecutive, verranno quindi fuori i veri valori di una rosa che al momento schianta chiunque pur avendo una squadra, causa infortuni, ancora al 70%. Tanti gli infortunati.

La Samp, dal canto suo, ha giocato 50 minuti di buona fattura. Sul piano della prestazione la migliore avversaria fino ad ora incontrata dai partenopei. Alla fine del 1T erano i blucerchiati ad avere maggiore possesso palla e più tiri a referto. Ospina severamente impegnato ha fatto grande prestazione trovandosi pronto quando chiamato in causa.

E però D’Aversa per proporre un gioco così intenso e offensivo, la cui esigenza nasce dalla perenne necessità blucerchiata di stanziare nella metà campo avversaria per poter reggere e favorire due attaccanti non contropiedisti e piuttosto anziani come Caputo e Quagliarella, concede spazio alle spalle della linea difensiva.

Così i primi 10 minuti Yoshida si trova in uno contro uno con Osimhen e scopre di praticare sport diverso dal nigeriano. Quest’ultimo prima gli mangia metri in campo aperto ma poi spreca a tu per tu con Audero, poi realizza lo 0-1 sfilando alle spalle del giapponese sulla gittata arcuata di Insigne un tempo destinata a Callejon.

D’Aversa capisce che rischia la goleada – che poi comunque subirà – e mette la copertura preventiva su Osimhen, bloccando il terzino destro doriano in fase di proposta offensiva. Da una sorta di 3412 sampdoriano, poco simmetrico, nascono i pericoli per Ospina e le annesse parate importanti di cui si diceva.

2. La mediana del Napoli

Ma nel miglior momento della doria Redondo, al secolo Fabian Ruiz, trova stile Tiger Woods sull’ennesima transizione offensiva la buca impossibile da raggiungere per Audero. Non si sa come ma con fulminea e cinica bellezza, rafforzata dalla capacità di soffrire e non indebolita dal morire nella stessa, è 0-2!

Dello spagnolo si è detto che fosse inadeguata scelta per sostituire Jorginho. Ora l’italo-brasiliano è ancora di altro livello ma Fabian ha carte in regola per raggiungere quelle vette. All’epoca l’operazione fu lungimirante, meno l’incapacità di lavorare sul giocatore sia di Ancelotti che di Gattuso.

Spalletti in 6 partite ha dimostrato che può giocare in una mediana a 2 ma questo già l’aveva detto Ancelotti – memore del 4231 Spagna u21 campione d’europa in cui Ruiz scherzava con i pari età -. Fabian può giocare sul centro sinistra e non per forza sul centro destra – dove non necessariamente a ragione si vede Fabian stesso -. E può comporre una mediana a 2 se al suo fianco agiscono giocatori come Demme o Zambo in grado di coprire metà globo terrestre con la propria corsa.

Il centrocampista spagnolo ha dimostrato che in situazione di prima impostazione, quando la linea difensiva si dispone a 4, può fare il vertice basso e farlo anche in fase difensiva, durante la quale molto spesso il trequarti Elmas o Zielinski retrocedono sulla linea di Anguissa per formare centrocampo a 3.

Anguissa, accompagnato dalla sindrome del tale e quale a Bakayoko, prestazione su prestazione sta marcando differenza con il francese e nobilitando la campagna acquisti di Giuntoli presente e passata.

Ds fin troppo criticato, che sicuramente ha commesso qualche errore, ma chiamato a gestire un ricambio generazionale già da un po’ sta vedendo germogliare la semina effettuata nelle sessioni di mercato precedenti. E se Anguissa dovesse continuare su questi livelli, Giuntoli si prende la palma di migliore Ds della stagione.

3. Il secondo tempo

La Samp prova anche nel secondo tempo, con volontà, a proseguire sulla scorta del primo. Tuttavia, appena lascia spazio – che copra preventivamente a 3 o a 2 – subisce un gol. Così accade anche nel secondo dove Osimhen a porta vuota deposita in rete un cioccolatino di Lozano. È 0-3!

Il nigeriano è meno forte di Cavani, Higuain e Mertes, se si vuole parlare di genetica del calcio, ma rispetto ai tre fenomeni suddetti è il giocatore che condiziona di più le squadre avversarie. La paura con cui preparano il piano gara o sono costretti a cambiarlo in corso è una cosa che raramente si è vista. Perché poi se le avversarie scelgono di togliere agli azzurri la profondità, si portano in area di rigore: Insigne, Zielinski, Lozano, Politano, Ounas, Elmas e anche potenzialmente l’opzione Petagna.

E chi li tiene 4 a scelta così, per 90 minuti, costantemente a 20-30 mt dalla propria porta? Peraltro 5 mezze punte dotate sia di dribbling che di tiro dalla distanza. E infatti alla quindicesima (?) ripartenza, sempre Lozano appoggia a rimorchio palla scorbutica che il trequarti polacco con la sua immensa classe, di mezzo collo esterno, schiaccia in rete manco fosse Michieletto o la Egonu agli Europei di Volley. È 0-4!

4. Mentalità

E poi infine una menzione per Insigne, che pare abbia trasmesso alla squadra la stessa fame e convinzione che aveva l’Italia di Mancini. Si può vincere a dispetto delle griglie di partenza e dei valori individuali assoluti o delle defezioni.

Sembra proprio che l’Italia per una volta abbia restituito qualcosa al Napoli: il dovere di crederci… Partenope è forte! Poi, un conto, è tenere quel tipo di mentalità per 7 partite, un altro è tenerlo per 38… e quindi calma, molta calma.

Massimo Scotto di Santolo

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Udinese – Napoli 0-4: Spalletti e il compromesso storico

Il Napoli brillante, ammirato ad Udine, è frutto di una ricomposizione tattica ed emotiva cesellata da Luciano Spalletti. Il tecnico di Certaldo ha unito la fluidità del gioco ancelottiano ad una identità dogmatica sarrista. Ha mantenuto intatti gli spunti positivi di Gattuso e scartato quelli infondati. Nell’eterna lotta tra i presidenzialisti e gli anti aziendalisti ha pacificato le due fazioni stando dalla parte del pubblico in qualità di uomo della società, alla quale ha saputo prestare carezze e schiaffi con parsimoniosa misura ed intensità. Il risultato è un Napoli consapevole delle proprie forze come mai da tre anni e perfetto, fino ad ora, nel suo cammino. La bellezza di tale perfezione consiste, infatti, proprio nell’aver vinto nonostante i difetti e nel voler vivere senza paura della morte.

1. Il lungo inverno

Ora la creatura di Luciano Spalletti, il Napoli stagione ’21/’22, danza sulla bocca di tutti. Stupefacente la vittoria sul campo della gagliarda Udinese ancora imbattuta in questo inizio di campionato. Attacco azzurro mortifero, gestione della partita encomiabile, difesa impenetrabile. Pur tuttavia, questo Napoli è il risultato di un cammino lungo di cui Spalletti sta raccogliendo i frutti.

All’indomani della fine del sarrismo, tre anni è durato il progetto di rinnovamento. E’ che questo percorso fosse giunto a compimento si era capito già nel girone di ritorno della stagione precedente, quando cioè il Napoli collezionò 43 punti. Si stava chiudendo un cerchio che vide l’ultimo Napoli sopra i 40 punti in un singolo girone di campionato, quello dei primi sei mesi di Ancelotti. Ed era ancora un Napoli profondamente sarriano. Il trend già prima dell’arrivo di Spalletti era in silenziosa e crescente ascesa.

2. I meriti temporanei di Spalletti

Spalletti ha avuto allora il merito di sembrare far brillare una bomba inesplosa. Ha conservato il 4231, imposto come nuovo schema da Ancelotti e ripreso riottosamente anche da Gattuso, ma inserendo varianti a seconda dell’avversario: il Napoli sa interpretare anche il 433 (applicato soprattutto in fase difensiva) e il 3421 (applicato soprattutto in fase offensiva). L’impostazione da dietro alterna, in base al pressing avversario, una linea di difesa a 4 più un solo centrocampista in appoggio ai difensori (4+1, utilizzato proprio ieri ad Udine) o una linea di difesa a 3 più due centrocampisti in appoggio (3+2, utilizzato ad es. contro il Leicester).

Il vero capolavoro “spallettiano” però consiste nell’aver cancellato quelle due categorie che albergavano nell’anima della città: i difensori e gli oppositori di De Laurentiis. Con i secondi ad incensare tutti i professionisti che hanno assunto ruolo contrappositivo alla società nella figura del Presidente. Amatissimi per questo motivo prima Sarri e poi Gattuso. Odiato Ancelotti per qualche esternazione aziendalista di troppo. Intanto spariva il campo dietro pessimismi cosmici dettati da faide intestine al tifo napoletano.

Ora, grazie a Spalletti, pare esista solo il Napoli e le sue prestazioni sul campo. Bisognerà testare più avanti, quando arriverà la bufera, se questo centrismo socialista non verrà rinnegato alla ricerca di scorciatoie: attaccare i calciatori per solleticare lo spirito di chi non crede nella professionalità di un gruppo che ha tradito in passato dirigenza, allenatori e tifosi oppure attaccare la società per non aver rinforzato a dovere la rosa.

3. Udinese – Napoli

Nel frattempo, gli azzurri vincono e convincono. E’ difficile riscontrare difetti nella prestazione andata di scena alla Dacia Arena, casa dei fruliani, a parte i primi 5′ di partenza lenta che pur Il Napoli si è concesso. Poi progressivamente ha sciolto i muscoli e dato sfoggio di sé.

L’idea di Spalletti, per venire facilmente a capo dell’enigma difensivo del tecnico avversario Gotti, consisteva nel disporre la linea a quattro di difesa allo scopo di attrarre sui terzini le due mezz’ali del centrocampo a 3 dell’Udinese. Sovente ha avuto effetto la trappola. E spesso, quindi, i partenopei hanno maturato superiorità in mezzo al campo ma soprattutto isolato i due esterni di attacco contro i quinti della difesa a 5 dell’Udinese.

Ed è li che Gotti voleva vincere la partita e invece l’ha persa. Contromovimento d’Insigne che finge di andare incontro a Mario Rui per poi attaccare la profondità. Il portoghese recapita pallone puntuale per il destro d’Insigne, il quale sfodera pallonetto di enorme precisione che consente ad Osimhen di spingere a porta vuota in rete il pallone dello 0-1.

4. La gestione da squadra finalmente ritrovata grande

Il vantaggio consente al Napoli di aspettare un’Udinese non propriamente abituata a fare la partita. Udinese, peraltro, spaventata dallo spazio alle spalle della propria difesa che Osimhen ha imparato ad attaccare con “discreta” cattiveria. Non a caso i bianconeri perdono completamente il filo del discorso. In questa assenza mentale, il Napoli con sconosciuto cinismo piazza due gol su schemi da calcio da fermo, mandando in rete i due difensori centrali (Rrahmani e Koulibaly).

Ritorna il compromesso storico. Non può essere un caso che dopo tre anni dall’addio di Sarri tornano schemi e geometrie in concomitanza con il rientro di Calzona. Calzona, detto Ciccio, storico vice di Sarri. Molto poco glamour per Londra, Torino e Roma ha portato conoscenze dentro lo staff di Spalletti dopo la pessima esperienza a Cagliari sotto la guida di Di Francesco.

4. Quali differenze con il Napoli del passato?

E però Spalletti è tecnico in grado di affrancarsi da copie carbone ed etichette. Lozano non lo snatura ma se c’è bisogno gioca a sinistra, dove il messicano non gradisce giocare. Hirving segna il quarto gol ed è bellissimo. Così come il Napoli di Spalletti, quasi quanto quello di Sarri ma non per le varianti che per ora ha mostrato.

Questo merito anche di Giuntoli, al cui lavoro il riconoscimento lo fornisce Gotti. Ad oggi, il tecnico dell’Udinese dichiara, è impossibile scegliere come affrontare il Napoli. Ha caratteristiche per le quali sia la difesa bassa che quella alta rappresentano in presenza di Osimhen enigmi decifrabili per la compagine azzurra. Mertens, da questo punto di vista, concedeva più scelta agli avversari sarristi su come preparare la partita. Eppure lo spunto muscolare del belga, all’epoca ancora esplosivo, ha rabberciato tante potenziali lacune.

Quindi, Spalletti pare voglia fondare un Napoli sarrista nel cuore ma ancelottiano nella mente. E con Carlo condivide il feticismo per la fisicità, in virtù della quale è stato assunto il per ora dominante Anguissa; per le varianti tattiche di cui si è detto e per Fabian possibile regista.

5. Spalletti e il compromesso storico

Gattuso aveva raccontato che lo spagnolo davanti alla difesa non poteva giocarci. Ci fu un tripudio generale su quest’affermazione, visto che il maldestro Ancelotti lì insieme ad Allan lo proponeva tra il brusio borbottante di una platea scontenta. Spalletti inizialmente si è fidato di tale convinzione e con Lobotka faceva scivolare Ruiz tra terzino e ala destra. Poi l’infortunio dello slovacco ha aperto le porte della sperimentazione. E Luciano ha compreso che con organizzazione e compagni complementari anche Fabian può dettare tempi e coperture davanti ai due centrali di difesa.

Mentre Spalletti ha ritenuto intoccabile l’intuizione di Gattuso nello schierare Zielinski trequartista. Visione sfuggita sia a Sarri che ad Ancelotti. Eppure non ha svilito, come fatto da Rino, il ruolo di Elmas a ragazzo della primavera aggregato alla prima squadra. E nemmeno confermato la maldicenza, rispetto alla precedente gestione tecnica, che Lobotka non fosse abbastanza professionale e forte per giocare in serie A.

Sembra la sfortunata epopea del compromesso storico teorizzato da Moro e Berlinguer: l’idea di creare, attraverso una posizione temperata, un accordo nell’interesse di tutti. I due leader politici agli antipodi volevano restituire agli italiani un nuovo miracolo economico sostenibile ed etico fondato su principi progressisti comunemente condivisi. Spalletti, invece, vuole ricostituire il diritto di sognare smarrito dai tifosi partenopei. Lo fa agendo, momentaneamente in modo ottimale, da eroe di mondi provenienti dal passato e tra loro fino ad ora scollati. Si spera non intervenga alcun fattore esterno a turbare un equilibrio centrista ma non compromettente.

Massimo Scotto di Santolo

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Napoli – Juventus 2-1: nessun rimpianto, nessun dolore

Al Diego Armando Maradona di Napoli andava in scena un grande classico del calcio italiano: Napoli contro Juventus. Sud contro Nord. Mai come questa volta, per una serie di contingenze, il Napoli affrontava la sfida oggettivamente da favorito. Luciano Spalletti in conferenza pre partita rigettava abilmente il ruolo del più forte. Molto più importante esserne consapevole e recitarlo nei fatti che nelle parole. Il risultato finale traccia il momentaneo quadro: il Napoli otto punti più forte della Juventus… ma è lunga, ancora lunga.

1. Vecchi fantasmi

Alle 18.00 del Sabato sera è andata in scena al Diego Armando Maradona di Napoli il famigerato vis à vis politico, sociale e sportivo tra Napoli e Juventus. Gli azzurri arrivavano allo scontro diretto da favoriti. Spalletti giustamente rifiutava in conferenza pre partita il ruolo di più forte, poi dimostrato sul campo ma soltanto nel Secondo Tempo.

Infatti, durante l’arco dei primi 45 minuti, il Napoli ha rivisto tutti i vecchi fantasmi che hanno animato le sfide partenopee contro i bianconeri. Dopo un inizio incoraggiante in cui nei primi 5 minuti il Napoli avrebbe avuto l’occasione di segnare il vantaggio al cospetto di una difesa juventina inopinatamente alta e disorganizzata, Manolas ha perso lucidità e attenzione subendo scippo del pallone da Morata. Lo spagnolo così si è potuto involare in solitaria verso la porta azzurra, mal difesa per posizionamento errato da Ospina, e segnare il vantaggio inaspettato della Juventus.

Il Napoli s’irrigidisce, subisce il contraccolpo psicologico dello svantaggio ma anche l’efficacia del piano tattico difensivo e di rimessa di Allegri. Il giro palla partenopeo è lento. La Juventus, con il suo 442 attendista, scivola meravigliosamente sulle fasce impedendo ad Insigne e Politano, eccessivamente prevedibili nel rientrare sul piede forte, di fare la differenza. Colpevole Politano di non puntare e saltare mai il terzino sinistro avversario, Luca Pellegrini, al rientro dopo 6 mesi d’inattività e al 50′ già colpito da crampi.

2. Il Napoli resta vivo

Anche l’uscita palla della Juventus inizialmente convinceva. Si è cercato ripetutamente Bernardeschi per imbeccare la mezz’ala a stelle strisce, Mckennie, molto spesso puntuale tempista nell’attaccare le spalle di Elmas. Impaurito, Spalletti, da questi inserimenti da tergo abbassa il macedone dal ruolo di trequartista a quello di mezz’ala.

Il Napoli chiude il Primo tempo attaccando un 4231 abbastanza ingessato e difendendo 433. Il risultato che ne è conseguito ha comportato una Juventus che per alcuni tratti della prima frazione di gioco ha comandato il filo del discorso. Locatelli, infatti, è risultato libero di agire nella perpendicolare che univa il vertice basso Ruiz a quello alto Osimhen. Dettava tempi e uscite. Trovava, l’ex Sassuolo, infine Kulusevsky alle spalle di Anguissa, mai preso in tempo da Ruiz, come detto, in fase difensiva mediano metodista.

Nonostante il grande sfoggio di cultura tattica compiuto da Allegri, che consolidava la sensazione d’inoffensività del Napoli togliendo completamente la profondità ad Osimhen, la Juventus non raddoppia, neanche prova a farlo. Sicuramente l’assenza di grandi campioni e dell’enclave sudamericana ha inciso sull’istinto killer juventino.

3. Nessun rimpianto, nessun dolore

Il Napoli ha iniziato a costruire la sua vittoria non cedendo alla fretta di trovare immediatamente il pareggio. Il non forzare le giocate e scoprire il fianco ai contropiedi già durante la prima parte della partita ha consentito agli azzurri di rimanere in partita, andare negli spogliatoi per ragionare su come scardinare il muro eretto da Allegri.

Spalletti nel ventre del Maradona riscopre Ounas e rispolvera il 3421 che tante gioie gli ha dato a Roma. In fase difensiva il Napoli si adagia su un 442 che però quando la squadra entra in fase di possesso della palla diventa 3421. Ounas e Politano sulla destra, Insigne e Mario Rui sulla sinistra. Saltano i raddoppi bianconeri. Conseguenza? Dominio del campo partenopeo. Ruiz dall’ombra del primo tempo trova la luce di una regia illuminata nei secondi 45 minuti. Anguissa gli presiede con muscoli e corsa i fianchi.

Il dominio napoletano non si è mai tradotto in grandi occasioni ma il portiere polacco juventino, Sczeszny, colpito da un’acuta “paperite” d’inizio stagione ne combina una delle sue. Perde la maniglia di una sfera calciata innocuamente da Insigne e consente a Politano il tap in vincente. All’85esimo, quando Napoli e Juventus si affrontano, è zona Koulibaly. Il difensore senegalese in zona cesarini ancora una volta diventa protagonista: sfonda la rete su azione da calcio d’angolo, approfittando di una palla lasciata senza padroni a ballare sulla linea della porta.

E’ 2-1 per il Napoli! La Juventus non ha più energie e qualità per organizzare un assedio finale e alza bandiera bianca. Il Napoli si concede un dolce weekend, tirando un grosso sospiro di sollievo: non battere una Juventus così spuntata, incerottata, indebitata… avrebbe potuto rappresentare rimorso difficile da dimenticare.

Massimo Scotto di Santolo

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Italia – Spagna 1-1 (4-3 r.): è la quarta finale europea della storia azzurra!

Una Italia più stanca e meno dominante della Spagna riesce nell’impresa di portare i favolosi iberici ai rigori. E lì i nervi degli azzurri, in controtendenza alla loro storia, restano saldi a differenza di quelli spagnoli. I quali dimostrano nel post partita, attraverso le dichiarazioni del loro mister, il Ct Luis Enrique, il perché sono stati così vincenti… sanno soprattutto perdere. Il mister delle furie rosse, dal vissuto umano drammatico, elogia la partita di entrambe le squadre definendo super l’Italia. Per questo motivo, l’ex allenatore anche della Roma e del Barcellona farà il tifo per gli azzurri in finale.

1. Il pre-gara italiano

Non che Paolo Guzzanti sia necessariamente una voce di rilievo ma colpì quando, durante una trasmissione di La7, definì l’Italia un Paese presuntuoso ed ego-riferito. Dalla cucina all’arte, il Bel Paese si definiva, secondo lui, tale soprattutto per un provincialismo imperante, per mancanza di conoscenza dell’estero e dei suoi usi e costumi. Vizio italico che si riverbereva nelle sue conseguenze nefaste anche tra i confini nostrani, dove nessuno era in grado di realizzare, anche solo a livello comunale, una comunità che fosse veramente tale.

E nel raccontare il match contro la Spagna, questa perfida descrizione del nostro Paese trova plastica dimostrazione. I media italiani hanno raccontato di una Italia più forte della Spagna quasi in ogni reparto. Improvvisamente l’Italia del Mancio era divenuta il Brasile del ’70 senza che nessuno se ne fosse accorto. Puntuale la risposta dei fatti: la Spagna maramaldeggia. Potrebbe vincere nei tempi regolamentari e supplementari con agio, ma l’inesperienza di un gruppo molto giovane e l’assenza di una punta esiziale condannano gli spagnoli alla forca dei rigori alla fine della cui lotteria escono onorevolmente sconfitti.

2. La partita

Due squadre molto simili nel gioco, Spagna e Italia. L’intento di entrambe è di controllare il possesso della palla sempre e comunque. Ci riesce nella semifinale di Wembley molto bene la Spagna, costringendo l’Italia al 35% di possesso palla. Il consolidamento del dominio del gioco riesce meglio se a fronte del pressing avversario l’uscita palla è gestita da Eric Garcia e Laporte piuttosto che da Chiellini e Bonucci.

L’Italia però ha il merito di non innervosirsi ed accettare il match del sacrificio. Combatte e difende a centrocampo e in area di rigore. Ha la sensazione, poi, con Chiesa di poter fare sempre male in contropiede. Unai Simon gioca una partita sensazione in termini di lettura: ha tolto costantemente la profondità all’idea italiana di attaccare in verticale una difesa spagnola non bravissima nei tempi del rinculo a palla scoperta.

E, in uno dei contropiedi, Chiesa segna un gol alla Lorenzo Insigne, un tiro a giro che si spegne all’incrocio del secondo palo. Nonostante una mole di gioco ispirata da due fantastici giocatori, Sergi Busquets e Pedri, e resa pericolosa dalle sortite offensive del demonio Dani Olmo, l’Italia è a un passo dalla finale, perché l’1-0 regge fin dal 60′!

3. I cambi

A 15 minuti dalla fine, tuttavia, sale in cattedra Roberto Mancini, ma le sue scelte sono controproducenti. Il ct azzurro toglie lo stanco Emerson Palmieri per l’accorto stopper Rafael Toloi. Dirotta Di Lorenzo a sinistra. Inoltre, avvicenda lo spento Verratti con Pessina. Già aveva, immediatamente dopo il vantaggio, sostituito l’impresentabile Immobile – Belotti non farà meglio – con Berardi, proponendo un insospettabile Insigne falso nove.

Il risultato è che l’Italia perde ogni velleità offensiva. Sia sulle fasce dove agiscono due terzini bloccati: uno per caratteristiche, l’altro per inusualità della posizione assunta. Sia centralmente dove Insigne non riesce a proteggere palla mentre Pessina e Barella creano più quantità che qualità in mediana.

L’ultima mossa deficitaria del Mancio consiste nel chiedere a Jorginho la marcatura ad uomo di Pedri. Il diciottenne genio spagnolo si tira fuori dalla posizione di trequartista, porta Jorginho nel mare magnum del centrocampo, si apre un buco nel cuore della difesa azzurra che la Spagna sfrutta in modo rapido e cinico. Morata si presenta a tu per tu con Donnarumma e lo trafigge. A dieci minuti dalla fine è di nuovo pari: 1-1.

4. Supplementari e rigori

Durante i supplementari, una Italia stremata resiste con la forza della disperazione ma non propone più alcun tipo di calcio. Resta soltanto la trincea, nella quale spicca più di tutti Giovanni Di Lorenzo autore di una prestazione, difensivamente parlando, immaginifica. Il Napoli fortunatamente gli ha allungato il contratto di un anno (ora la scadenza è 2026, fonte sky). L’applicazione del terzino partenopeo gli ha consentito di annullare sia fisicamente che tatticamente tutte le ali spagnole affrontate. Non ne ha sofferta nessuna!

Benché la Spagna abbia un paio di occasioni clamorose lungo i faticosi supplementari per chiudere la pratica anzitempo, il match alla fine giunge ai rigori. Unai Simon nella sua scelta di scommettere sempre sul tiro incrociato imbriglia soltanto il rigorista principiante Locatelli. Poi la perfezione degli altri rigori azzurri lo vedono inerme. Nel frattempo Dani Olmo ha pareggiato l’errore di Locatelli sparando il suo destro in tribuna, mentre Morata commette l’errore decisivo appoggiando il piatto sui guanti del portiere azzurro. Infatti, dopo il centroavanti juventino, va dal dischetto lo specialista Jorginho, che in modo magistrale non perdona e spiazza il portiere inviando un’intera Penisola, per una volta tutta unita, in finale!

Massimo Scotto di Santolo

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Dio è morto! Il 2020 si porta via anche Maradona

Un pensiero personale sull’icona Diego Armando Maradona, oggi dichiarato morto. Riposa in pace, Diego.

1. Perché Diego Maradona?

Non ho mai visto dal vivo giocare Diego Armando Maradona. Sono un ragazzo napoletano nato nel 1993, ben due anni dopo l’addio di Maradona a Napoli. D’altronde tanti appassionati di calcio, napoletani, argentini e non sono stati impossibilitati a godere del suo calcio, del suo spettacolo sportivo. Questo giorno però è divenuto un momento di lutto globale.

È possibile spiegare un attaccamento anche così indiretto, postumo, da parte di chi avverte il bisogno di condividere il proprio dolore per la morte di una persona, di un atleta, del quale non hanno potuto trattenere per sé un pezzo della sua icona né visivamente né fisicamente?

2. Don Peppino

È possibile, perché immaginate un bambino neanche ancora adolescente, figlio di genitori separati, affidato alla propria madre e convivente sin dalla propria nascita con i nonni materni, in cerca d’identità trovarla proprio in una vecchia VHS. E beh sì, quel bimbo che dopo la scuola o il campo estivo, finiti i compiti e non ancora abbastanza grande per aggirarsi da solo con gli amici per la strada o per i campi di calcio, trascorreva i pomeriggi accanto al nonno ammalato ma resiliente.

Questo nonno, che lo chiameremo come lo chiamavano gli amici Peppino, aveva avuto trascorsi amatoriali nel calcio: direttore sportivo della Puteolana di professione; sarto per hobby. Avrebbe potuto, Peppino, durante gli ultimi vagiti della seconda guerra mondiale, fare il salto nel calcio che contava. Scartando la fame e le macerie, si era segnalato nel Quartiere per la bravura calcistica. Così la chiamata ufficiosa della Primavera partenopea, rigettata per la volontà della mamma: o studi o lavori ma a pallone di professione non giochi.

Peppino, non piegato dalla delusione dell’occasione perduta, si riciclò tifosissimo del Napoli. In quanto fumatore accanito l’improvviso quanto inevitabile infarto gli impedì successivamente di provare forti emozioni. Smise così di seguire le partite di un Napoli ormai in contrazione di risultati rispetto a quello degli scudetti. Questo non gli impedì di raccogliere cimeli in pellicola sull’ultimo Napoli che i suoi occhi allo stadio e le sue orecchie alla radio poterono ascoltare, quello di Diego Armando Maradona.

3. Perché in te vedo le mie radici


Avendo quotidianamente ad un palmo di naso quel bimbo, pensò di imbevere del vento di passione calcistica, che animava il suo spirito, il nipote così timido e introverso, quasi spaventato dalla vita. Prima, quando le gambe ancora gli consentivano di camminare, lo instradò alla pratica del calcio giocato.

Poi, progressivamente, potendo trascorrere le giornate soltanto in poltrona, lo accoccolò al suo fianco per raccontargli la storia della SSC Napoli e mostrargli in televisione le gesta del più grande di tutti, per l’appunto Maradona, e l’effetto che le sue imprese sul campo con la maglia azzurra ebbero sulla gente di Napoli.

E quel bimbo, che sono io, vide crescere a poco a poco un albero al centro del proprio sistema emozionale, rappresentato dal calcio e dal suo Re Artù, Diego Armando Maradona. Il quale, a questo punto, rappresenta le radici che ho sempre cercato e che nella sua icona ho spesso ritrovato, a partire dall’idea che non si potesse essere felici se non giocando a calcio. Che per assomigliargli, dotato come sono di statura minuta e tozza ma anche di capelli ricci, fosse il caso di portarli lunghi.

Anche perché poi risuonavano le parole di Don Peppino, la persona da cui tutto è partito, che giocando con me a recitare il ruolo di spettatore e io di calciatore che inscenavo la serie A in salotto urlava “Ma stu guaglione ten e cosc e Maradon”.

4. E ti vengo a cercare

Quindi, per rispondere, insomma, alla premessa domanda di partenza, cioè come sia possibile che Maradona coinvolga nel dolore e nel lutto persone che non lo hanno visto giocare, né lo hanno conosciuto, la risposta è che in Diego, ritroviamo, per parafrasare un suo collega artista, Franco Battiato, le nostre radici.

L’orgoglio, il sogno, la passione, l’azzurro di cui grondo… la meridionalità che come lui avverto contro le discriminazione razziale e territoriale subita al suo stesso modo sulla mia pelle; infine, l’illusione che Robin Hood possa nel calcio come nella vita rubare ai ricchi per dare ai poveri. Io nel frattempo sono diventato grande, quasi adulto, ho abbandonato quel portamento adolescenziale, accolto purtroppo una visione anche disillusa dell’esistenza, finanche pensando fosse il caso discostarmi da un personaggio così novecentesco ed eccessivo.

Pur tuttavia, di tanto in tanto, mi lascio inondare in modo quasi febbrile, da quella determinazione, emotività, cocciutaggine e orgoglio infantile che proprio davanti a quelle cassette maturava. Ero piccolo e immaturo ma avevo molta meno paura di quanto ne abbia oggi della vita, dei suoi ostacoli e dei lupi con cui talvolta devi confrontarti. Non a caso, secondo me, la più grande giocata di sempre di Maradona non è stata la rete del secolo rifilata all’Inghilterra, quando divenne per tutti barillete cosmico, piuttosto la sua capacità di togliere a chiunque le paure di dosso: ai suoi compagni di squadra, alle città affaticate dalle criticità e anche a me.

Come Dio, in conclusione, in grado di illuminare gli altri senza che l’autoreferenzialità di questi ultimi e del mio racconto su Diego, rispettivamente umani e limitati, potessero mai oscurare la sua luce. Ecco chi era Maradona… una lampadina che oggi pomeriggio si è spenta sulla nostra testa ma alzandola noteremo sempre accesa in cielo la sua stella.

Massimo Scotto di Santolo

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Mastellone: “Sarri ama la città in modo straordinario, ma vuole rinforzi per conquistare lo scudetto. Io il primo a sapere dei contatti con De Laurentiis”

Oggi abbiamo avuto il piacere di intervistare il commendatore Gaetano Mastellone, amico di Sarri ed ex vicepresidente del Sorrento, che rassegnò le dimissioni quando il tecnico toscano fu esonerato, nonostante fosse ad una lunghezza dai playoff, sostituito da Gennaro Ruotolo. Con lui abbiamo parlato dell’attuale situazione tra Sarri e il Napoli, dove in ballo c’è il rinnovo e l’eventuale permanenza del tecnico di Figline Valdarno

Buongiorno commendatore Mastellone, innanzitutto grazie per aver accettato l’intervista, da amico ed ex vicepresidente del Sorrento di Sarri, come sta vivendo questi dubbi di permanenza del toscano a Napoli, lei che lo conosce bene quali sensazioni ha, resterà? Quali sono le vere riserve del tecnico?

Io sto vivendo questo momento con serenità perché so bene che Sarri è molto legato al Napoli ed ama la città in modo davvero straordinario. Lui qualche settimana fa è stato chiaro: vuole avere una squadra modificata in meglio, quindi rafforzata, per conquistare lo scudetto. Senza se e senza ma.

Il mister come vive le critiche del presidente e di alcuni giornalisti nonostante il campionato fantastico e il record punti?

Il presidente credo abbia espresso, come è giusto che sia, il suo pensiero. Ambedue sono caratteri forti che, da persone intelligenti quali sono, sanno smussare gli angoli!

Polemiche arbitrali a parte, il Napoli ha perso lo scudetto per un filotto che non è riuscito a centrare, con una squadra come la Roma si può perdere, ma da Sassuolo in poi qualcosa sembra non aver funzionato. In base alle sue conoscenze Sarri si rimprovera qualche scelta, ha qualche rimpianto? Lei da presidente avrebbe avuto qualcosa da rimproverargli?

Sarri è un grande professionista, una persona dotata di un alto quoziente intellettivo e quindi sa ripartire da eventuali errori (pochi) che potrebbe aver fatto. In questi tre anni ha lavorato, e bene anzi benissimo, con il materiale umano che aveva a disposizione. Oggi è giusto che chieda qualche nuova pedina valida in più! In guerra non si combatte con le armi spuntate!

Su Sarri sono nati molti luoghi comuni, un po’ come successo a Zeman ispiratore della nostra testata, etichette fastidiose e difficili da scrollarsi di dosso. Il nostro direttore Salvatore Piedimonte è un amico comune e di sicuro ne avrete parlato, quindi domanda d’obbligo, in cosa differenzia Zeman e Sarri, che visione ha del Boemo?

Zeman ha tutta la mia stima, è un vero uomo oltre ad essere un allenatore innovativo. Differenze con Sarri? Maurizio è più moderno, ambedue sono studiosi di calcio e seri professionisti che dicono sempre ciò che pensano. No ipocrisia!

Lei che è amico diSarri, ci racconta un aneddoto inedito del vostro rapporto o della vostra esperienza al Sorrento?

Essere amici, anche se con poche assidue frequentazioni, lo si capisce da piccole cose. Ricorderò sempre la sua telefonata del pomeriggio del giorno in cui la sera doveva incontrare a cena il Presidente Aurelio De Laurentiis. Squilla il mio telefonino, era lui. Vediamoci sto venendo a Sorrento. Siamo stati insieme, c’era anche la sua Signora, per quattro ore. Poi andò a Napoli per il primo incontro a cena con De Laurentiis. Insomma sono stato il primo a saperlo! Ovvio che restai in religioso silenzio.

SALVIO IMPARATO

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Giampaolo: “Il Napoli non mi ha chiamato, oggi buona partita nonostante l’attacco spuntato” (VIDEO)

Un Marco Giampaolo nervoso in sala stampa, forse troppe critiche dalla stampa locale per un finale di campionato in calo rispetto al girone d’andata, ma il tecnico non ci sta e afferma che per andare in Europa League il Torino non ha ceduto Belotti, mentre la Samp ha dovuto cedere i migliori. Non sembra esserci aria di rottura con Ferrero, ma Giampaolo ci ha tenuto a mettere le cose in chiaro confermando la sua disponibilità a restare anche con un ridimensionamento sul mercato, a patto che sia una corretta comunicazione sul futuro da parte del club e della stampa. Noi ovviamente gli abbiamo chiesto sulle voci che lo danno al Napoli la prossima stagione al posto del collega e amico Maurizio Sarri.

Mister ovviamente non si sbilancerà mai sul suo futuro al Napoli al posto di Sarri, ma lei che sensazioni ha? Resta al Napoli?

“Non rispondo né sul mio futuro e né su quello di Maurizio, già ho detto che sto bene qui e il mio futuro alla Samp non dipende da dei rumors che non ho, di sicuro il Napoli non mi ha chiamato e quindi la chiudiamo qui perché la questione è se qui posso ancora dare soddisfazione alla gente, al club e alla mia squadra”

Penso che abbiate fatto una buona partita forse proprio l’interruzione per i cori ha destabilizzato la squadra?

“La squadra ha fatto una buona partita, bisogna tener conto della forza dell’avversario, che se non sbaglio ha perso una sola partita fuori casa e ti dice in modo serio cos’è il Napoli. Noi siamo stati bene nella partita, siamo stati competitivi e abbiamo concesso quello che il Napoli si prende normalmente e non di più, anche oggi eravamo un po’ spuntati, Zapata è subentrato ma rischiavamo di perderlo ancora, Quagliarella non c’è e quindi non avevo cambi li davanti, poi la sconfitta mi dispiace ma alla squadra non posso rimproverare nulla e devo ammettere che il Napoli è un’altra storia”

Salvio Imparato 43

Al Napoli e a Sarri manca un mercato condiviso

In questo momento di difficoltà del Napoli, la tendenza ovviamente è quella di trovare un colpevole, che sia la società, l’allenatore o la mentalità della squadra, non ha importanza, basta trovarne uno per discutere e ridurre il tutto a risse virtuali. Si trascura l’analisi approfondita e la critica costruttiva, o si distrugge o si elogia, creando una frattura netta, un solco dove da un lato c’è il Sarrismo e dall’altro il Papponismo. Oggi scegliere da che parte stare non è utile, bisogna invece individuare le possibilità di miglioramento di tecnico e società, in base alle caratteristiche di entrambi. Quindi non limitare la storia alle presunte mancate rotazioni di Sarri, alla sua rigidità e ai mancati acquisti del presidente, ma all’analisi di queste cause, cercando di individuarne l’evoluzione e magari partecipare al gioco delle possibili soluzioni.

Il Napoli non è un top club europeo, lo dicono i conti, con due anni consecutivi di bilancio in rosso gli azzurri sono il trentesimo club europeo per fatturato, questo non bisogna dimenticarlo, ma resta comunque ai vertici del campionato italiano, frutto di un gioco specifico, fatto di sincronismi, croce, ma più delizia, di questo Napoli. Croce perché, in un calcio moderno, fatto di più competizioni, un sistema di gioco così estremamente legato ai suoi interpreti migliori si espone, inevitabilmente, a questi periodi di calo. Il paradosso è che questo limite, se vogliamo chiamarlo così per la mancanza di alternative, è la maggior fonte di delizia degli azzurri, appunto perché l’impiego esclusivo dei titolari ha portato ad un perfezionamento di ogni movimento, offensivo e difensivo, occhio che Sarri non lascia niente al caso, abbassare il baricentro e giocare sotto ritmo, senza lavorare, su determinati concetti e movimenti, per lui sarebbe inconcepibile, tante volte il calcio è stato teatro di squadre offensive non in grado di gestire la partita, abbassando l’intensità. Ecco perché questo tipo di gioco, da sempre, va sostenuto da un certo tipo di mercato, non certo quello dei top player che piacciono a certa stampa, ma quello di giocatori funzionali al sistema e con una certa esperienza. Sarri oggi ha disegnato un impianto di gioco, che deve sostenersi anche con questa capacità di fare mercato, una qualità che manca a lui come manca al Napoli, non ci si può permettere un difensore, pagato 30 milioni, attaccanti e centrocampisti non integrati nella rosa e da smaltire puntualmente. Questa squadra, negli interpreti principali, è stata assemblata da Benitez, che ha una profonda conoscenza del mercato e dei giocatori, e non sarebbe male perfezionarsi in questa caratteristica, vedremmo più rotazioni e duttilità, invece di giocatori sgraditi e inutilizzati, ma deve essere un aspetto condiviso, un miglioramento fatto insieme, perché una società e un allenatore che lottano per i vertici, non possono più mostrarsi così distanti sull’individuazione di elementi utili alla causa, anche per non dare voce a chi punta il dito su mancati acquisti o sul mancato aziendalismo del tecnico, che ogni anno è costretto, nelle emergenze, ad inventarsi qualcosa e attenderne gli effetti, il lavoro ha sempre aiutato Sarri e almeno questi due mesi, senza coppe europee, gli daranno la possibilità di dedicare tempo a quello che sa fare meglio, allenare.

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Sarebbe bello vedere ADL e Sarri così

Ho il privilegio, da Napoli, di scrivere una rubrica settimanale sul mio allenatore preferito Zeman. Essere Zemaniano è un fanatismo che porta con se tante analogie con il Sarrismo. Se ci riflettete ne Sacchi e ne altri, in Italia hanno un culto come Zeman e Sarri, perché secondo voi? Mica solo per il 433 e le mentalità offensive, così sottilmente simili e così profondamente diverse, ma anche per come comunicano la loro allergia alle dinamiche del calcio extracampo e di potere. Stili e tempi diversi per dire a volte le stesse cose, ma non si fa sempre del bene al nostro idolo glorificandolo anche quando potrebbe evitare certe esternazioni. Non sta a me giudicare se fate bene o fate male, questo amore incondizionato resta qualcosa di romantico, sa di quella poesia quasi sparita nel calcio, un pò come il gol di Brignoli, sono solo testimone di un fanatismo ispirato da un uomo rivoluzionario, ormai vecchio, che ancora prova a cambiare il suo destino e il suo futuro e quello di ragazzini di 18 anni, che ha pagato a caro prezzo le sue battaglie. Anche li dove ha creato quel capolavoro 5 anni fa, oggi lo attaccano per risultati e attacchi diretti, alla stampa soprattutto, io ancora lo difendo, ma stando, in qualche modo, più vicino al calcio, ho imparato come e cosa il mio idolo sbaglia dentro e fuori dal campo, e che un fanatismo non può essere totalmente estraneo al mondo del calcio, in cui solo il risultato ti perdona quel che dici e appena perdi sei solo, talmente solo che vorrei vedere De Laurentiis e Sarri così vicini come Zeman e Sebastiani, un presidente che a Pescara è bersagliato più del nostro, ma appena ha capito che ci voleva un segnale si è seduto a sorpresa di fianco al mister, in conferenza pre partita che da noi non esiste, e ha insegnato come si sostiene un allenatore e il suo sistema di gioco delicato, a cui nel mercato non ha soddisfatto le richieste del Boemo. Da noi si crea sempre il gelo tra tecnico e presidente, proprio quest’anno anche ADL, di cui non sono un detrattore, dovrebbe fare un gesto simile o almeno far capire a tutti che sono uniti.

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Spalletti: “Sarri arrivi settimo, se vuole giocare ad un altro sport” (VIDEO)

Durante la conferenza a margine di Inter-Chievo, Luciano Spalletti punge Sarri incalzato da Guardalà di Sky.

“Se arrivi tra le prime quattro vai Champions, se arrivi dopo vai in Europa League e se arrivi settimo ti mandano a fare le amichevoli. Se vuole giocare ad un altro sport arrivi settimo e vede come si diverte, noi vorremo arrivare a giocare tre partite la settimana. La Juve nonostante questo ha vinto tanto, si deve confrontare con loro Sarri non con noi”

https://youtu.be/HO56HtDDksU

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