Bayern Monaco-Salisburgo 7-1: uno spunto per parlare del calcio di Negelsmann e dell’evoluzione teutonica di questo sport.
1. IL MODO
Ieri sera il Bayern di Julian Negelsmann ha schiantato il vivace Salisburgo, assicurandosi così i Quarti di finale di Champions League.
Il modo con cui i tedeschi hanno superato gli austriaci è descritto ottimamente dalla formazione in sovrimpressione.
Immediata soggiunge la riflessione secondo la quale mister Julian stia veramente portando avanti l’ultima vera rivoluzione tattica possibile nel mondo del calcio.
2. L’ULTIMA NOVITA’
Il sostituire gli stopper con i terzini, i fluidificanti con le ali, lo spostare la vera regia dal centrocampista a quello che ricorda il vecchio libero (Süle nel caso di specie) – l’unico ormai in grado di poter vantare ancora visione del campo a 180° al cospetto del rispolverato pressing uomo su uomo – e/o sussidiariamente al portiere… in pratica l’assegnare i ruoli difensivi a tutti coloro che possono interpretarlo nella maniera più offensiva possibile sembra la strada tracciata da Negelsmann.
Impressiona leggere della formazione di ieri sera Gnabry e Coman, nominalmente ali d’attacco se non mezze punte, scelti per svolgere compiti nati con Giacinto Facchetti.
3. DA UNA IDEA DI PEP
Impressiona la continuità con cui il Bayern stia cercando di perseguire una strada del genere che nemmeno lo sperimentatore Guardiola ha saputo intraprendere né in Baviera né a Manchester con tale pervicacia.
Pep pur avendo usufruito di questa interpretazione iperoffensiva del calcio ha sempre attinto ad essa in situazioni di svantaggio, quindi in circostanze emergenziali.
4. L’IMPORTANZA DELLE FASCE
Dopo il portiere tecnicamente associativo, sembra evidente che lo sfogo sulle fasce, costantemente concesso alla manovra avversaria da tutte le squadre calcistiche europee, e la nascente esigenza consequenziale di allocare risorse tecniche decisive sui lati esterni del campo rappresentino la vera frontiere da scavalcare per entrare nel football contemporaneo.
5. IL CALCIO REPLICANTE
Quanto è replicabile un modello del genere altrove? Non si può sorvolare, ovviamente, sulla qualità dei giocatori a disposizione di Negelsmann.
Eppure l’impressione è che, a parte l’uso smodato del cash sul mercato, attraverso l’impiego di uno scouting pignolo è possibile l’emulazione di tale sistema.
I nuovi calciatori appaiono morfologicamente predisposti alla rivisitazione delle funzioni calcistiche proprie di determinati ruoli. Il calcio tradizionale, dal canto suo, resiste per fortuna contro l’avanzata di un calcio tecnologico, oserei dire robotico… in provetta!
Sul sito Repubblica.it Pierluigi Pardo presenta a viderubrica “È il calcio, bellezza”. In questa bellissima puntata si parla di Zeman, Sarri e Bielsa.
Pardo, “È il calcio, bellezza”: da Zeman a Bielsa, perché amiamo il calcio folle che seduce (e non vince)
Zeman, Bielsa, Sarri. Tre filosofi del calcio fuori dagli schemi, affascinante e coraggioso, spettacolare e coinvolgente ma di rado vincente. Ci sono allenatori che, nonostante possano vantare pochi titoli, restano nel cuore della gente, dei tifosi, dei semplici appassionati di calcio. E anche nel cuore degli stessi calciatori, come racconta Cassano a Pardo in questa puntata de “È il calcio, bellezza” dedicata al football folle in grado di sedurre anche quando porta alla sconfitta.
Così recita la didascalia che accompagna il bellissimo video, in cui Pardo, con le note dell’isola che non c’è di Bennato, ci racconta il perché ci si innamora di chi non vince ma incanta, emoziona e resta impresso nella storia. Infatti come racconta il cronista, giornalista e presentatore, il calcio è fatto di numeri. Dove la vittoria conta più di ogni cosa e crea certe categorie. Categorie di squadre, allenatori e calciatori. Mentre dall’altra parte c’è la categoria degli innovatori che entrano nei cuori e nella storia senza alzare tanti trofei. Di questa categoria fa di sicuro parte Zdenek Zeman innovatore estremo di attacco e spettacolo con il suo dogma… Il 4-3-3.
“Ho avuto squadre che non erano da primo posto che però hanno giocato da squadre da primo posto. Le vere soddisfazioni erano quando perdevamo le partite e il pubblico ci applaudiva comunque”
L’entusiasmo che ha accompagnato la presenza di Max Allegri al Club, ha incuriosito ma non ha convinto. I problemi del calcio italiano in Europa sono anche figli del racconto che il tecnico livornese ha portato in diretta a Sky Calcio Club.
Chiunque potrebbe dire – <<Ma come, Allegri è l’unico che ha portato la Juve a giocare due finali di Champions e voi scrivete queste eresie?>> – ma non avrebbe ragione, almeno non del tutto. Qui non stiamo scrivendo un articolo per dire – << Svegliatevi, Allegri non è bravo>> – anzi, Max Allegri è bravissimo, il numero uno dei gestori, come li definì Zeman. Ne è l’evoluzione, la versione 3.0 di Lippi, Capello e Ancelotti. Anzi come Ancelotti è un rinnegato, Carletto rinnegò Sacchi senza tradire il DNA del Milan, forse alla Juventus capì che non poteva replicare l’integralismo del suo maestro. Allegri invece ha rinnegato il bel gioco, con quello vinse la panchina d’oro alla guida del Cagliari, mutando invece il suo DNA personale, fino ad arrivare a quello che è oggi. Un allenatore moderno che va ospite di Caressa a far godere Capello e far felici gli anti Sarri e risultatisti.
IL CALCIO E’ CHI DIFENDE MEGLIO
Era l’ultima frase che si poteva sperare di sentire e Max Allegri we l’ha detta. E da li in poi non lo ascolti più con la curiosità di chi ormai si era buttato alle spalle il suo periodo Juventino, la contrapposizione con Sarri e i “giochisti”. Chi si è definito zemaniano non può non discostarsi dal racconto che ne è venuto fuori. Si tradirebbero le crociate filosofico-culturali di Zeman, dove il calcio è chi fa un gol più dell’avversario, ascoltando assoluti del calcio vecchia maniera. E si rischia anche di fare brutte figure se non si capisce, che ormai il calcio italiano sta pian piano accogliendo il calcio di chi è sempre stato vissuto come untore.
Non a caso le rivelazioni italiane sono tutte quelle che propongono un’idea di calcio ben precisa. Italiano, che è l’ultima in ordine cronologico, si emoziona in diretta per i complimenti ricevuti dal Boemo. Questa realtà dovrebbe raccontare molto di più di un – <<sono più importanti i calciatori e la loro tecnica>> – che diventa un racconto non più sostenibile. C’è ormai un pubblico attento che non si può entusiasmare a vedere Max Allegri e Don Fabio “farsi i pompini a vicenda” in stile Pulp Fitcion.
CON QUESTO TIPO DI RACCONTO NON SI VA LONTANI IN EUROPA
Sandro Piccinini in qualche modo ha tentato di ricordare, a Max Allegri, che in Europa le squadre cercano il risultato con una diversa mentalità offensiva. Ma Max ha tentennato, non ha saputo rispondere arrovellandosi con la storia del DNA delle società. Il Liverpool ed il City ad esempio, ora hanno il DNA di Klopp e Guardiola, quindi il suo discorso stona, se pragonato a queste realtà. Magari è più circoscritto alla serie A, ma in Champions perde molta forza. Insomma il suo racconto e tante altre realtà non dette o citate non convincono. Quando Zeman dice che in Italia si lavora poco nessuno lo cita o lo ascolta.
E’ chiaro che il colpo Sarri lo ha accusato. Un colpo forte da cui non ne è ancora uscito. E di sicuro non ne uscirà rafforzando questa limitata visione. Non ne uscirà consolidando miopi convinzioni, non sempre valide. Infatti prendiamo la sua regola in cui contasolo il valore dei calciatori. Perché da quando è arrivato Ronaldo, uno dei più forti del mondo, acciughina ha faticato di più? Max Allegri è intelligente e anche furbo, legge la partita come pochi. Ma il calcio che racconta e quello che rinnega screditandolo mettono a nudo il suo limite.
Se esiste questa testata non è solo per i meriti del bel calcio di cui Zeman ci ha fatto innamorare. Esiste anche per il demerito della stampa italiana, per come è solita raccontare gli allenatori che perseguono una filosofia all’antitesi del difensivismo. Zeman, Sarri e Gasperini elogiati quando non si può fare altro, ma attesi al varco impazientemente alle prime sconfitte, appena le cose sembrano non andare.
Sembrano appunto, perché Gasperini ci ricorda la lezione di Zeman, quella in cui cercando di fare quello su cui stai lavorando, anche nella sconfitta ti sta insegnando qualcosa. Bisogna credere nelle proprie idee e provarle anche a livelli più alti. Nonostante le sconfitte di Champions, Gasperini non è arretrato di un centimetro, sapeva benissimo che pur funzionando in Serie A, la sua filosofia in Champions andava migliorata. Dettagli, intensità e mentalità andavano portati ad uno step superiore. Il cosiddetto salto di categoria. Ed ecco che il primo punto storico, dell’Atalanta in Champions League arriva contro il Manchester City devastante di Pep Guardiola.
Le parole di Gasperini dopo il 5-1 di Manchester
Se l’Italia pallonara ha sempre guardato con scetticismo la rivoluzione della filosofia Zeman, ignorando la sua validità attraverso le epoche (Foggia anni 90’, Lecce 2004/05 unica squadra italiana in A a salvarsi con la peggior difesa e il Pescara 2011/12 che vinse il campionato con il suo calcio definito vecchio) ora non può più ignorarne l’eredità. Gasperini dopo la aver perso a Manchester 5-1 giocando bene, ha ribadito un concetto forte e chiaro. Un qualsiasi allenatore italiano avrebbe cambiato moduli e atteggiamento tattico, lui invece ha puntato sulla maggiore convinzione nelle proprie idee. Risultato? Un bel 7-1 immediatamente dopo contro l’Udinese, un 2-2 a Napoli e un pareggio storico a San Siro contro Pep Guardiola. Una lezione per tutti i tecnici, per le società e anche per un certo tipo di stampa, che addirittura si è permessa di accostare Gasperini a Zeman in accezione negativa per i gol subiti… Studiate gente studiate.
La lezione zemaniana di Gasperini tutta da ascoltare dopo la sconfitta di Manchester ai danni della sua Atalanta….
Chiacchierata zemaniana con il nostro Paolo Bordino. Paolo l’ho conosciuto a Castellammare in occasione di Juve Stabia-Pescara del 2011, il giorno in cui conoscemmo per la prima volta il nostro vate di Praga Zedenk Zeman. Presentatomi come uno dei più esperti conoscitori del calcio zemaniano e del calcio in generale, da quel giorno non abbiamo mai smesso di parlare di calcio ed oltre a scrivere di calcio campano su varie testate è stato anche nostro inviato a Cagliari nella trasmissione RossoBlu95, alla quale ha preso parte per tre edizioni.
Paolo Bordino con Zeman in occasione di Juve Stabia Pescara nel settembre 2011
Ciao Paolo spesso nelle nostre chiacchierate private parli spesso di Ancelotti come allenatore che cura quasi esclusivamente lo sviluppo. Prima di addentrarci nel discorso su Carletto nel calcio contemporanea vuoi spiegare che tipo di lavoro è?
Parlo di sviluppo inteso come lavoro per lo più impostato sulla capacità di lettura delle situazioni di gioco – afferma Paolo Bordino – nella tattica collettiva e individuale. L’idea iniziale di Ancelotti, del Napoli “liquido”, era questa. Il punto è un altro…
Quale?
Siamo sicuri che, per qualità della rosa e caratteristiche dei singoli il Napoli sia una squadra che può fare a meno del lavoro continuo sulla ricerca degli automatismi? Vedi, nell’opinione pubblica calcistica si tende a creare dicotomie che non esistono: quella tra “giochisti” e “risultatisti” e quella tra “offensivisti e difensivisti”. Nulla di più sbagliato. La vera linea di frattura è quella tra tecnici come Zeman, Sarri o lo stesso Mazzarri che, a prescindere dalla filosofia di gioco, creano la loro impronta nel lavoro settimanale basato su certezze tattiche e automatismi ed allenatori come Ancelotti che, in un’ottica di gestione del gruppo e di fiducia nel valore dei singoli puntano per lo più su un lavoro teso all’interpretazione delle varie fasi del match. Qui casca l’asino: il Napoli ha una rosa del livello delle squadre in cui Ancelotti ha mietuto successi? Può bastare al Napoli un lavoro sul campo che accantoni la ricerca di automatismi in nome della pura e semplice ricerca dello sviluppo del gioco? I fatti dicono di no. Così come la stessa storia recente ci dice che il tipo di allenatore che serve al Napoli è di diverso tipo rispetto a quello attuale.
Ma Ancelotti con l’avvento di Guardiola e Klopp resta un tecnico attuale?
Guardiola e Klopp hanno avuto un enorme merito: dimostrare al mondo che il lavoro maniacale su princìpi di gioco ed automatismi, unito alla ricerca di innovazioni tattiche che hanno già cambiato il calcio contemporaneo, è un qualcosa che di esportabile ai livelli più alti del calcio europeo e non soltanto un lustro per gli occhi da confinare in provincia tra gli sghignazzi di chi etichetta un certo modo di giocare come “bello ma poco redditizio”. Con Guardiola e Klopp più di qualcosa è cambiato: impostazione con doppio regista, uscita sul falso e “gegenpressing” sono diventati materie di studio per allenatori di ogni categoria. Oggi, nel 2019, per vincere non basta più la mera “gestione” dei talenti. Basta guardare la classifica dell’ultima Premier League. Chi sono stati i primi tre? Guardiola, Klopp e Sarri, con il primo e il terzo a trionfare in Europa. Qualcosa vorrà pur dire. Così come appaiono tuttora indicative ed eloquenti le difficoltà incontrate dallo stesso Ancelotti al Bayern…
Guarda caso sostituì proprio Guardiola sulla panchina dei bavaresi e qui a Napoli Sarri. Forse è proprio passare da un lavoro ossessivo ad uno più rilassato a mettere in difficoltà i giocatori? Delle lamentele sul poco lavoro a Monaco c’è stato da parte dei giocatori
“Non la porrei in questi termini – dice Paolo Bordino – io vedo una questione di tipologia di lavoro inadatto all’organico che Ancelotti ha a disposizione. Se un tipo di approccio oggi inizia a non andare bene finanche per gruppi di lavoro forgiati di vittoria in vittoria, come può pensare di attecchire fino in fondo laddove, come a Napoli, c’è un gruppo che ha vinto poco e la cui vera leadership è stata quella degli automatismi in campo? Ancelotti per sintonizzarsi con la realtà napoletana dovrebbe tornare quello di Parma anziché l’uomo della “decima”…”
Quello di Parma forse finì proprio alla Juventus dove ora c’è Sarri. I risultati stanno arrivando, ma il gioco ancora non esplode, che idea ti sei fatto di questa prima fase del toscano nei bianconeri?
“Proprio l’avvento di Sarri è la riprova di quanto dicevo prima. La gestione del gruppo all’insegna dello sviluppo non basta più per restare ai vertici di un calcio che tende globalmente ad un livellamento verso l’alto. La Juve prendendo Sarri, un uomo di campo, di principi tattici, di schemi e di automatismi snatura un po’ sè stessa per provare ad andare oltre quanto il già fatto. Dal canto suo, Sarri ha dinanzi a lui un lavoro non facile: portare dalla sua parte un gruppo che, mentalmente, potrebbe inconsciamente cullarsi sulle certezze di anni di successi giunti per vie diverse rispetto a quelle che vuole battere Sarri.
Il lavoro è a metà, ma sembra bene avviato: il 4-3-1-2 di partenza sembra essere il vestito tattico individuato dal tecnico per valorizzare e sfruttare al meglio il potenziale offensivo notevole. Non mi aspettavo riuscisse in così breve tempo a far mettere in pratica a Pjanic il proprio credo. C’è ancora molto da lavorare, invece, su una linea difensiva che deve ancora comprendere appieno quando e come accompagnare il pressing e su i movimenti senza palla dalla trequarti di campo in su, ancora caratterizzati da un tempo di gioco di troppo. È chiaro, tuttavia, che i risultati aiutano e la Juve, quando conta, come nello scontro diretto di Milano, ha dimostrato di esserci e di voler intraprendere un cammino tattico nuovo.”
Veniamo al nostro vero ispiratore, Zeman. Il suo calcio è ancora attuabile? Modica con la sua Vibonese sembra volerci dire che quel calcio ancora riesce a mettere in crisi squadre più attrezzate. Il Bari di De Laurentiis e Vivarini, infatti, è stato letteralmente dominato nel gioco.
“Giacomo Modica è un tecnico preparato come pochi. È uno zemaniano di ferro con un autonomia di pensiero che porta a non scimmiottare il suo maestro dal punto di vista tattico. A Cava de’ Tirreni ha dimostrato tutto il suo valore salvando una squadra con un’ossatura di categoria inferiore. E se non fosse stato per alcune scelte societarie apparse come incongrue avrebbe senz’altro centrato i play-off. Con la proverbiale quantità che sopperisce alla qualità.
Tuttavia credo che, in realtà, il calcio di Zeman non sia mai stato pienamente attuato (se non a Licata e a Foggia). Anche a Pescara, spettacolo meraviglioso che è ancora nei nostri occhi, talvolta ha apportato dei correttivi tattici in difesa derogando ai suoi principi, come quando nel finale di campionato ebbe a mantenere Bocchetti bloccato a sinistra in difesa. In tal senso, le difficoltà maggiori incontrate da Zeman non derivano dal fatto che abbia deliberatamente trascurato la fase difensiva, come sostengono coloro che lo conoscono in modo superficiale. Piuttosto, dal fatto che Zeman richiede un tipo di concezione del modo di difendere radicalmente opposta a quella che viene inculcata a Coverciano ai tecnici di ogni livello.
Sin da piccoli, ai difensori viene insegnato non ad attaccare la sfera come avrebbe bisogno il calcio di Zeman, ma a coprirla e difenderla. Ed è naturale che, crescendo, il difensore assimila certi principi e li assume come innati. Per questo Zeman preferisce difensori giovani. Ricordate il lancio di Nesta, destinato al prestito al Sora? Oppure Marquinhos subito in campo alla Roma, contrariamente al parere di Sabatini, che intendeva destinarlo alla Primavera? Per Zeman il difensore ideale, da plasmare, è quello mentalmente sgombro da preconcetti mentali. Quindi, il giovane. A tal proposito, mi resta il rimpianto di non aver potuto vedere all’opera in giallorosso, con Zeman, la coppia Marquinhos-Romagnoli. Ci sarebbe stato da divertirsi…”
Eh si un vero peccato problemi simili li ha avuti anche a Cagliari e nell’ultima esperienza a Pescara..
Non è neppure colpa dei giocatori. Cambiare la mentalità di un trentenne non è semplice- afferma Paolo Bordino – il punto è nel tipo di mentalità che viene plasmata in Italia a livello difensivo. Difendere e coprire, mai “attaccare” la palla per essere mentalizzati verso la porta avversaria. Nella sua ultima esperienza a Pescara, in tal senso, Zeman ha dato la sensazione di adattarsi all’organico del pacchetto arretrato, difendendo spesso a baricentro basso. E l’intera manovra ne risentiva.
Il problema vero è sempre alla base, prendere Zeman e parlare di progetto, ma alle prime difficoltà delegittimare il lavoro del Boemo pubblicamente attraverso i media da parte dei presidenti..
“I progetti a certi livelli possono esistere fino ad un certo punto. I diritti televisivi fanno da sempre molta gola ed il rischio di retrocedere porta i presidenti a scelte fin troppo conservative. Se questo da un lato è comprensibile per le piccole squadre, ancora più clamoroso è il caso del Milan, che dà il benservito a Giampaolo ed al suo progetto tecnico addirittura dopo una vittoria! In un contesto del genere, chi rischierebbe di prendere Zeman non potendogli dare carta bianca? Sulle esternazioni passate di Giulini e Sebastiani direi che abbiamo consumato anche più inchiostro del dovuto…”
Chiudiamo con un pensiero sulla costante Gasperini e su Fonseca, quest’ultimo riuscirà a spuntarla sulla follia della piazza romanista?
“Gasperini – confessa Paolo Bordino – dichiarando dopo il cappotto dal City che mai avrebbe rinunciato alla propria identità contro Guardiola, anche per un discorso “formativo”, oltre a dare una lezione a tanti colleghi ha anche dimostrato che l’unica realtà progettuale del calcio italiano (con un fatturato strutturale a ridosso dei top-team) è una realtà atta a perdurare. Fonseca, dal canto suo, ha iniziato benissimo. Anche grazie ad un ambiente che, dato un taglio netto col passato, sembra essere più propenso ad affrontare il futuro in modo costruttivo”.
L’occasione è una cena di compleanno per i 72 anni del Maestro Boemo Zdenek Zeman, che si concede ad un’ampia chiacchierata alla Gazzetta Dello Sport.
L’occasione è festeggiare con qualche giorno di ritardo il compleanno: la carta di identità recita 72, portati alla grandissima. Zeman regala la mitica smorfia con le labbra e rifà i conti: “Io me ne sento 40, non di più”. Quando sei a cena con “Il mister” devi mettere in conto due cose. La prima è essere interrotti continuamente per foto, autografi e strette di mano cui si concede sempre con grande disponibilità. La seconda è che la cena si divide sempre in un primo tempo al coperto, e un secondo (dolce, caffé, amaro) in un tavolino all’aperto, perché la sigaretta chiama. E non fa differenza se è una serata di maggio che pare novembre. “Che faccio? Tiro palline… (traduzione, gioco a golf, ndr) e vedo calcio, anche se mi diverte poco. E aspetto la chiamata giusta. Le tre quattro ricevute quest’anno non lo erano”.
Come è stata questa stagione vista da fuori?
“Brutta, dice con sincerità Zeman, perché in 50 anni sono stato fermo poche volte. In più non è stato un anno di grande calcio in Italia. Tra le cose positive la Nazionale che sta cambiando mentalità”.
La lotta scudetto è finita presto.
“Sono otto anni che finisce prima di cominciare”.
Come giudica la stagione di Ronaldo?
“Un po’ peggio di quella di Quagliarella”.
Mister…
“È un campione. Ma il salto di qualità della Juve non c’è stato. Senza Ronaldo aveva raggiunto due finali di Champions”.
Da chi si aspettava di più?
“Forse dal Napoli di Ancelotti, ma aprire un nuovo ciclo non è facile. L’Inter si ritrova a lottare fino all’ultimo come l’anno scorso. Ha costruito poco. Mi aspettavo un calcio migliore”.
Cosa è successo alla Roma?
“Troppe cose non hanno funzionato. A partire dalla campagna acquisti, non mirata. Mi è dispiaciuto per Di Francesco ottimo ragazzo e tecnico. Se prendi uno come lui poi devi seguire le sue indicazioni. Ma oggi i tecnici contano poco”.
Dopo Totti la Roma ha salutato anche De Rossi
“Capisco la delusione dei tifosi, ma cerco di capire anche il club. Un giocatore che ha dato 18 anni alla Roma meriterebbe di decidere lui quando smettere. Ma il calcio di oggi non lo permette. Mi spiace che De Rossi abbia fatto con me la peggior stagione della sua carriera: non so ancora se per colpa mia o sua”.
Cosa salva del campionato?
“L’Atalanta, che gioca il calcio più europeo di tutte. La Coppa Italia della Lazio, la salvezza di Spal e Bologna. Mihajlovic ha cambiato mentalità alla squadra: con lui ha giocato sempre per vincere”.
Si aspettava quattro inglesi nelle finali di Coppa?
“Le inglesi hanno mentalità offensiva, giocano per fare un gol in più. E il loro campionato è più bello e divertente. Qui è l’opposto. Si gioca per non prenderle”
In Premier le prime 5 hanno tecnici stranieri: merito loro?
“Il contrario. Gli allenatori si adattano al calcio inglese. Se vediamo una vecchia partita del Barcellona e una oggi del City giocano un calcio diverso. La grandezza di Guardiola, il più bravo di tutti, è adattare la sua filosofia ai tornei in cui va”.
E Ten Hag con l’Ajax?
“Continua nel tracciato del grande Ajax, dove lanciano talenti. Ha idee e la possibilità di esprimerle. Oggi pochi allenatori hanno idee”.
Nulla di nuovo in Europa?
“A livello tecnico e tattico no. Ma la conferma che le squadre che vogliono proporre qualcosa, alla fine vanno avanti”.
Si è riproposta la divisione tra risultatisti e giochisti…
“E lo chiede a me? Un allenatore deve cercare di far divertire la gente. I risultati sono la conseguenza di quello che proponi. Chi gioca bene a lungo andare vince”.
Cosa pensa dell’idea della Superchampions?
“Che questo piano ammazzerebbe i campionati. È una corsa solo ai soldi ma il calcio per me è la passione della gente che può assistere alle partite. Trovo giusta la protesta dei club contrari”.
Quanto è difficile nell’era dei social entrare nelle teste dei giocatori?
“È molto più difficile. Ho cominciato che la squadra era una famiglia, si stava insieme, oggi il calcio è uno sport di 11 individui. Ognuno si fa gli interessi propri”.
Cosa pensa degli staff tecnici così allargati?
“Sono una esagerazione. Un allenatore non deve demandare troppo, ha lui il dovere di sapere tutto ciò che c’è da fare in campo”.
Il suo Lecce è tornato in A , il suo Palermo invece è retrocesso in C…
“Sono contento per la piazza di Lecce che vive di calcio. Sul Palermo ci sarebbe da parlare due giorni”.
È un suo cruccio non averlo allenato?
“Sì. Sono sempre stato convinto che avrei finito la mia carriera lì dove la cominciai da ragazzo…”.
Aspetta una nuova panchina?
“Passione, voglia e testa sono le stesse. Le mie idee e il mio calcio ancora moderni. Sei anni fa dissi che ero avanti 20 anni: resto in vantaggio di 14”.
Quando le candeline costano più della torta si cominciano a fare bilanci… Qual è la cosa più importante nella vita? E cosa la spaventa?
“La propria salute e quella di chi hai vicino. E di conseguenza mi spaventa la malattia. Ho vissuto in questi ultimi anni il dramma di mio figlio Andrea che ha affrontato con coraggio una grave malattia. In quel momento in cui hai paura che il corso della natura si stia rovesciando, nulla ha più un senso. Ogni certezza si sgretola. È stato uno shock di cui parlo solo ora perché si è risolto abbastanza bene. Ma solo chi ha vissuto qualcosa di simile può capire sensazioni, il vuoto, il male dentro che niente può attenuare finché le cose non tornano al loro posto”.
Guardando indietro ha rimpianti? Cambierebbe qualcosa?
“Non potrei farlo anche volendo. Ho commesso errori, confessa Zeman, ma chi non ha mai fatto cose di cui si è pentito? Sciocchezze però rispetto alla vita globale. Ho vissuto la mia come volevo e se ho sbagliato l’ho fatto in buona fede. C’è solo una ferita mai rimarginata, ma non per colpa mia…”.
Quale?
“Nell’estate del 1968 da Praga venni a Palermo con mia sorella per passare le vacanze con mio zio Čestmír Vycpálek. Scoppiò l’insurrezione politica che portò alla Primavera di Praga. E nella notte fra il 20 e il 21 agosto ci fu l’invasione sovietica. Rimasi in Italia senza poter tornare: per venti anni non ho più rivisto la mia famiglia. Venti anni senza ricordi. Non mi mancano coppe e scudetti, mi mancano quei 20 anni”.
E cosa chiede al futuro?
“La salute dei miei familiari e altri 20 anni per me. La carriera dipende da chi chiama ma spero ancora di ricevere l’affetto degli sportivi, il riconoscimento per quello che sono riuscito a dare e dire alla gente”.
Come allenatore, sono più costruito che nato. Così esordisce Eusebio Di Francesco in un’intervista al portale calcistico coachesvoice
“Non volevo farlo inizialmente – continua Di Francesco su coachesvoice – e onestamente non avrei mai pensato di poterlo fare. Guardavo gli altri allenatori e non ho mai avuto il desiderio di fare quello stesso percorso”
“Sono diventato Team Manager della Roma dopo essermi ritirato. L’ho fatto per un anno, ma non mi piaceva il ruolo. Non ero tagliato per quello”
“Non pensavo più al calcio. Mi sono allontanato dal gioco. Non ho nemmeno guardato i risultati.”
“Successivamente, ho provato a dare una mano come consulente di mercato per sei mesi. In un piccolo club, il Val di Sangro. Ma non ero soddisfatto nemmeno di quello.”
“A poco a poco, ho iniziato a sentire l’odore dell’erba. Quelle sensazioni che provi quando sei nello spogliatoio. Passare ad allenare mi ha rimesso in contatto con quei sentimenti sopiti.”
CALCIO ITALIANO E INFLUENZE
“Tendiamo a concentrarci molto di più sull’aspetto difensivo che su quello offensivo.Lavoriamo tantissimo sulla tattica senza lasciare nulla al caso, abbiamo molti allenatori esperti. All’inizio della mia carriera di calciatore fui colpito da Marcello Lippi alla Lucchese, più tardi a Roma da Fabio Capello. Non ho intenzione di elencarli tutti, ma ho cercato di prendere qualcosa da tutti. Ora osservo molto Pep Guardiola. Ho grande ammirazione di lui. Mi piace la sua idea di calcio e non amo il possesso palla fine a se stesso. Non voglio aspettare l’avversario, ma andare sempre ad aggredirlo”.
ZEMAN
“Ma l’influenza principale per me in termini di stile di gioco offensivo, di attaccare sempre l’avversario è stata quella di Zdenek Zeman. Zeman era un pioniere. Le sue squadre attaccavano sempre. Erano ben allenate e hanno sempre provato a segnare un gol in più rispetto all’avversario. Normalmente non sono un fan dell imitare o copiare il lavoro di qualcun’altro. Ma ho imparato molto il lato offensivo del gioco da lui, e ne traggo ancora oggi grandi benefici”.
DE ROSSI, DOMINIO DEL GIOCO E MENTALITA’ VINCENTE
“De Rossi può farcela a diventare allenatore. Ha il carattere, l’esperienza e la conoscenza giusta dopo aver lavorato con tanti manager differenti. Spero in futuro che sia tra quelli che lasceranno un segno”.
“Voglio sempre dominare. Chiaramente non possibile in tutte le occasioni. Prima di arrivare a Roma ero al Sassuolo, ma anche quando siamo andati a giocare con squadre superiori a noi, abbiamo cercato sempre di imporci”.
“Il calcio non è una scienza. Ma credo che la scienza possa guidare il calcio a migliorare. Le statistiche sono utili. Possono darti indizi o indicazioni importanti quando si tratta di prepararsi per una partita, o quando stai cercando di migliorare le debolezze che potresti avere.
“Se vedo una statistica che mostra che la mia squadra non sta giocando molti passaggi verticali, cercherò di lavorare su questo aspetto del gioco più di altri in allenamento perché sono un allenatore che preferisce giocare in verticale”.
“In un club come la Roma, una familiarità con l’ ambiente – l’ambiente o l’ambiente attorno a un club – è sicuramente un vantaggio. Non è mai facile da gestire, ma il fatto che l’abbia vissuta come giocatore è un grande vantaggio”.
“Il ruolo di un allenatore è totalmente diverso, però. Damaggiori responsabilità e l’ ambiente non deve mai essere una scusa. Chi viene qui sa che i media e le situazioni che incontri sono totalmente diversi. I fan sono davvero appassionati e hanno il desiderio di vincere perché non succede da molto tempo”.
“A volte, quel desiderio può diventare più grande di quanto tu possa immaginare. Ma è una fonte di grande orgoglio essere in grado di allenare la Roma, sapendo che devi fare un buon lavoro equilibrato nel gestire l’esterno”.
“Nel 2001, quando ho giocato nella Roma dell’ultimo scudetto, c’è voluta capacità e fortuna per vincere il campionato. Il presidente Sensi aveva investito molti soldi e siamo stati un ottimo gruppo. Allo stesso tempo, per vincere titoli è necessario un grande spirito di squadra. Oltre ai grandi calciatori, quella squadra aveva grandi uomini”.
“La gente parla troppo facilmente di mentalità vincente, però. Prima di ciò, è necessario creare un ambiente vincente con regole, per poi avere una base su cui diventare vincitori”.
“Ci vuole tempo. Hai bisogno di costruire. Devi dare alle persone che arrivano tempo per lavorare. Nel calcio, spesso accade che la gente voglia tutto subito. Questo non ti permette di migliorare come squadra, come allenatore e come club”.
“Spero che sia quello che possiamo fare qui. Dobbiamo lavorare per cercare di raggiungere un obiettivo senza sottovalutare nulla. Nemmeno il più piccolo dettaglio. I dettagli sono ciò che fa la differenza. Questo vale per tutto. Anche chi taglia l’erba”.
In Italia il suo nome è conosciuto da tutti i tifosi del calcio. L’allenatore Zdeněk Zeman ha guidato club famosi come Lazio Roma, AS Roma o Palermo. Durante il rilascio della targa dell’Hall of Fame Sport ha riferito di essere in pensione ancora per poco: “Torno. Certo! “
Ha guadagnato l’etichetta di allenatore che vuole il gol e lo spettacolo a tutti i costi anziché accontentarsi di un noioso 1-0 o di un grigio pareggio a reti inviolate.
“Tutti i miei ragazzi hanno sempre sudato – racconta Zeman alla cerimonia Hall Of Fame – per dare alla gente qualcosa. Il calcio senza emozione non è importante. La cosa importante è quello di far divertite il pubblico, anche quello avversario. E penso di esserci riuscito infatti sono molto famoso in Italia per questa mia caratteristica, ha dichiarato l’allenatore Zdenek Zeman durante la visita alla redazione di Isport.cz , che ha rivelato come nasce la sua passione per il calcio offensivo.
“Quando ero ancora in Cecoslovacchia, ho allenato gli allievi dello Slavia e Vyšehrad. Si giocava sempre con il 4-3-3. Forse mancavano i tagli e più movimento, ma sempre almeno tre attaccanti. Il mio modello è stato l’allenatore Kováč che ha guidato l’Ajax e disse che la miglior difesa è l’attacco. È da li ho fatto mia quell’idea”, ha specificato Zeman, che ha preferito segnare sempre un gol in pi+ dell’avversario.
“Mi piacerebbe sempre vincere 5: 4. A volte sono riuscito a vincere 8: 2 o 7: 1. In serie A non è facile. Non mi piacedi fare un punto come fanno gli altri allenatori per salvare il posto in panchina. Non ho mai giocato per un pareggio, mai per salvare la panchina”, ha detto con orgoglio il famoso allenatore ceco.
Il leggendario Zdeněk Zeman è diventato un membro dell’Hall of Fame di Isport.cz
In passato, tuttavia, ha avuto difficoltà a ottenere panchine a causa della sua onestà e onestà. Ha fortemente criticato le condizioni del calcio italiano ed è stato il primo a mettere in guardia contro il doping. Lo contraddiceva.
“I presidenti avevano paura che se fossero stati penalizzati e che l’intero sistema sarebbe stato contro di noi. Ecco perché non mi volevano “, ha detto Zeman.
Un allenatore popolare ma sofisticato ama guardare i club che hanno uno stile offensivo.
“Mi piace il Manchester City. Guardiola ha cambiato il suo gioco rispetto a quando era alBarcellona. Il Liverpool anche gioca anche calcio offensivo e mi piace”
Nell’intervista Zeman ha parlato anche dell’ex allenatore dello Sparta.
“Conosco Stramaccioni da Roma. Era mio fan. A volte mi ha invitato al ristorante. Non è stato molto fortunato in Italia. Ha fatto molto lavoro nelle squadre giovanili e ha valorizzato abbastanza giocatori “.
La sfida più grande, per un allenatore come lui, sarebbe essere ingaggiato per la prima volta nella Repubblica ceca.
“Non credo a breve. Le squadre stanno facendo bene e non devono cambiare i loro allenatori “, ha detto Zeman, aggiungendo, con il sorriso di chi sta tornando presto in panchina. “Torno. Certo! ”
Liverpool-Manchester City è stata una battaglia tattica. La squadra di Klopp e quella di Guardiola hanno dato vita ad un match atipico dal punto di vista dello spettacolo. L’ultima partita prima della pausa della Nations League si è giocata sul filo dei nervi. I due allenatori si sono dati battaglia sul piano tattico. E alla fine hanno prevalso la cura dei dettagli e la concentrazione nel disinnescare i punti di forza legati alla qualità offensiva.
Le due squadre sono arrivate all’ultimo appuntamento (Liverpool-City) di questo intensissimo periodo a pari punti in classifica, con lo scenario di un possibile primo posto in solitaria in caso di vittoria Il Liverpool di Klopp ha mostrato però nelle ultime uscite segnali di stanchezza, sia mentale che fisica. I Reds hanno allungato la rosa nella sessione estiva di mercato, ma il pensiero di dover affrontare, nel giro di dieci giorni, due volte il Chelsea, il Napoli e il Manchester City non ha certamente facilitato valutazioni in questo senso. Fatta eccezione, in parte, per la partita di Carabao Cup decisa dal capolavoro di Hazard, in campo sono scesi praticamente sempre gli stessi calciatori. E il calo di brillantezza e di lucidità può per questo essere definito fisiologico.
NAPOLI-LIVERPOOL
La partita di Champions al San Paolo contro il Napoli ha restituito in primis l’immagine del capolavoro tattico di Carlo Ancelotti. Ma ha anche mostrato un Liverpool decisamente spento per gli standard a cui siamo stati abituati, con gli zero tiri nello specchio che hanno fatto più di una notizia. Impegni così probanti e così ravvicinati hanno inevitabilmente messo a dura prova innanzitutto la possibilità di far rifiatare qualche elemento di rilievo. Poi, come conseguenza diretta, la capacità di correre e far correre il pallone più e meglio degli avversari. E nonostante queste evidenti difficoltà, i Reds hanno ceduto al Napoli solamente al 90′. Hanno condiviso un punto proprio ieri con il City, e avrebbero certamente meritato qualcosa in più allo Stamford Bridge. Da cui è comunque uscito con un punto.
IL PERCORSO DEL CITY
Il Manchester City, invece, è arrivato ad Anfield dopo aver superato, con più di un brivido dopo la sconfitta interna alla prima col Lione, l’Hoffenheim di Nagelsmann in Champions. La squadra di Guardiola non ha dovuto fronteggiare avversari particolarmente temibili in campionato, escluso un Arsenal non ancora rodato alla prima giornata. Calendario molto diverso rispetto a quello del Liverpool, che oltre ai dieci giorni infernali già citati, ha raggiunto i 20 punti in classifica affrontando già il Tottenham a Wembley, il Chelsea allo Stamford Bridge, e il City appunto ieri. Vincendo la prima e pareggiando le altre due.
LiVERPOOL-CITY, LA PARTITA
I 90 minuti di ieri sono stati produttivi per gli appassionati di tattica. Sulla carta abbiamo giustamente sottolineato come lo 0-0 possa definirsi risultato atipico. Cosa difficile da mettere in dubbio. Ma il momento particolare di forma degli uomini di Klopp e la particolare attenzione con cui Guardiola avrebbe approcciato a questo tipo di partita e allo scontro con l’allenatore tedesco, dopo le ultime non confortanti uscite e lo score a sfavore, qualche indizio avrebbero potuto fornircelo.
Sono scesi in campo praticamente i due 11 tipo. Unica novità nel Liverpool in difesa, con Joe Gomez dirottato sulla destra al posto di Alexander Arnold, e Lovren, il migliore in campo, al centro della difesa. Nelle file del City, con De Bruyne sempre fuori e Gundogan indisponibile, spazio a Mahrez esterno alto a destra, con David Silva e Fernandinho mediani.
Liverpool (4-3-3): Alisson; Gomez, Lovren, Van Dijk, Robertson; Henderson, Milner, Wijnaldum, Salah, Firmino, Manè.
Manchester City (4-2-3-1): Ederson; Walker, Stones, Laporte, Mendy; D. Silva, Fernandindo, Mahrez, B. Silva, Sterling; Aguero.
L’avvio di partita ai soliti devastanti ritmi da parte del Liverpool ha dato la sensazione di rievocare parzialmente le ultime uscite ad Anfield tra queste due squadre. Pressing asfissiante, recupero delle seconde palle e verticalità immediata: le armi che hanno da sempre messo in difficoltà anche un signore della tattica come Guardiola. Ma questa volta il piano gara dello spagnolo è emerso con più convinzione e chiarezza. L’occupazione degli spazi da parte dei suoi calciatori è stata esemplare. Una volta assorbita senza sbavature la forza propulsiva iniziale dei Reds, il Manchester City è riuscito a prendere controllo del pallone con maggiore continuità, e a impedire al trio offensivo dei Reds di essere pericoloso con le solite combinazioni. Laporte, in particolar modo, decisamente sugli scudi e perfetto in tutte le situazioni e nelle letture.
La notizia decisamente positiva in chiave Liverpool però, a dispetto delle stagioni precedenti, è legata proprio alla trovata compattezza verticale della squadra, oltre alla solidità difensiva data dalla guida di un colosso come Van Dijk. Questo è il primo aspetto che ha permesso ai Reds di uscire indenni e di far sue partite che, con la stanchezza e la sterilità dell’ultimo periodo, in passato probabilmente avrebbe perso.
Le rette delle due squadre si sono intersecate e hanno finito per annullarsi a vicenda, oscurando le fluide connessioni tra i giocatori e quindi l’alto indice di pericolosità offensiva. Soprattutto nella ripresa, la squadra che ha dato la sensazione di poter avere la meglio è stata quella di Guardiola. I Citizens hanno avuto un controllo maggiore della gara, e con il calo di intensità del Liverpool, hanno iniziato ad uscire con continuità e in maniera pulita costruendo da dietro.
La chiave tattica, in ottica futura, potrebbe forse essere questa. Superare il primo pressing dei Reds. Alzare leggermente il terzino sinistro, asimmetrico rispetto al destro. Cambiare gioco proprio sul lato mancino mandando in fumo il collasso degli uomini di Klopp sul lato palla. Aprirsi il campo colpendo il Liverpool a palla scoperta. La strategia di Guardiola, con Mendy, ha dato la sensazione di aver preso spunto da quella vittoriosa di Ancelotti con Mario Rui.
Il paradosso della prestazione difensiva del Liverpool è arrivato dall’ottima partita di Lovren. Il croato è stato probabilmente il migliore in campo, con 8 duelli vinti, 5 tackles e l’87% di precisione dei passaggi. L’immagine che ogni volta restituisce è quella di un difensore centrale sulla carta completo, ma sempre troppo umorale e istintivo per poter essere veramente definito affidabile. Van Dijk, invece, guida eccelsa del reparto, si è reso protagonista del fallo da rigore su Sanè, poi calciato alle stelle da Mahrez. Curioso constatare come si sarebbero potuti associare arbitrariamente al contrario il dato iniziale e la seconda infrazione.
KLOPP VS PEP
Jurgen Klopp è l’allenatore ad aver battuto più volte Pep Guardiola. Su 15 partite disputate, con il pareggio di ieri le vittorie sono rimaste 8. La vera inversione di tendenza però punta a raggiungerla proprio il tedesco. Arrivare prima del collega spagnolo alla fine del campionato. E prima del Chelsea, del Tottenham e dell’Arsenal. La classifica è fantastica, con Manchester City, Chelsea e Liverpool a quota 20, seguite da Tottenham e Arsenal a 18. Avevamo detto che gli ingredienti per una corsa più elettrizzante ed equilibrata rispetto agli ultimi anni sembravano poter esserci tutti. Per il momento la sensazione è che il campo voglia e possa darci anche qualcosa in più in questo senso.
La Premier League 2018/2019 sembra aver disposto tutte le carte in modo tale da rendere l’esito finale meno a senso unico rispetto alle due annate precedenti.
Se da un lato possiamo mettere in discussione quanto appena detto esponendo la regola del “non c’è due senza tre” e sottolineando come proprio le due stagioni prese in esame siano partite con le stesse premesse, poi tradite dal campo, dall’altro è lecito pensare che il dominio incontrastato del Manchester City quest’anno possa essere messo alla prova in maniera più concreta almeno dal Liverpool, assoluto protagonista del mercato in entrata. La squadra di Pep Guardiola è forse ad oggi la squadra più accreditata alla vittoria della Champions League. Questo potrebbe portare l’allenatore spagnolo a puntare più su quest’ultimo obiettivo, che non alla vittoria finale della Premier League. Fermo restando che con la lunghezza e la qualità della rosa a disposizione, l’idea di poter raggiungere entrambi gli obiettivi e di arrivare nel momento topico della stagione in corsa su tutti i fronti è assolutamente alla portata
IL LIVERPOOL DI KLOPP
La squadra di Klopp ha esposto radicalmente l’ambizione a cui il solido progetto a lungo termine partito tre anni fa intende arrivare. I Reds, sotto la guida del tecnico tedesco, sono cresciuti costantemente sia dal punto di vista del gioco che dei risultati. Le due finali europee messe a referto, purtroppo perse, ne sono una chiara testimonianza. Sia per il modo e che per le prestazioni a contrassegnarne il percorso. Sciolto finalmente e con ingiustificato ritardo il nodo portiere, con l’arrivo di Alisson, allungata quantitativamente e qualitativamente la rosa grazie a Fabinho, Naby Keita e Shaqiri, e affidate le chiavi della difesa all’imprescindibile Van Dijk, le premesse e le intenzioni sembrano piuttosto chiare e credibili. Salah, Manè e Firmino saranno chiamati a replicare o addirittura migliorare gli spaventosi numeri della scorsa stagione. Robertson e Alexander Arnold appaiono vestiti sempre più su misura dall’idea di calcio di Klopp. Joe Gomez invece sembra avere tutte le carte in regola per spodestare il non sempre affidabilissimo Lovren dalla casella di secondo centrale difensivo.
TOTTENHAM
Particolare attenzione ha poi sicuramente destato il Tottenham. Gli Spurs sono la prima squadra dal 2003 (anno in cui è stata introdotta la sessione estiva), a non aver effettuato nemmeno un’operazione di mercato, sia in entrata che in uscita. Guardando all’inizio di questo campionato e in particolar modo a quello di Lucas Moura, riesce però molto semplice pensare che un solo ma importantissimo acquisto, seppur attingendo alla sua stessa rosa, la squadra di Pochettino l’abbia comunque fatto. Il brasiliano può realmente essere l’uomo in più di quest’anno, considerando che l’assenza di Son, da sempre uno dei punti fermi, non è passata in secondo piano solamente per motivi extracalcistici, che per fortuna sua e degli Spurs si sono risolti nel miglior modo possibile. Il sacrificio economico per realizzare il nuovo stadio che verrà inaugurato proprio in questa stagione è stato sicuramente il motivo principale della fase di stallo di questa sessione di mercato. Pensare a dove il Tottenham possa effettivamente arrivare è legato ai soliti interrogativi. I margini di miglioramento che questo gruppo dimostrerà ancora di poter avere, sia in Premier che in Champions, e la crescita mentale di una squadra in grado ormai di giocare divinamente su qualsiasi campo, ma forse non ancora pienamente matura per certificare sempre la supremazia territoriale con il risultato e per portare a casa le partite meno brillanti dal punto di vista della prestazione. Se Pochettino, che già ha dimostrato di essere uno dei migliori allenatori in circolazione, riuscirà a trovare le risposte, l’asticella di questo gruppo potrà alzarsi ancora una volta.
IL CHELSEA DI SARRI
Le luci del palcoscenico di questa competizione sono abbastanza forti da poter illuminare efficacemente anche il nuovo Chelsea targato Maurizio Sarri. La posizione in classifica dopo queste prime quattro giornate, unite all’indiscusso valore assoluto della rosa e alla possibilità di vedere quest’ultima perfettamente inserita nel rigido sistema dell’ex allenatore del Napoli, lasciano presagire un campionato dai numeri e dalle soddisfazioni importanti. Analizzando le prime uscite stagionali risulta abbastanza evidente che la mano del tecnico inizia a dare i primi frutti. Diversi aspetti del gioco, tra cui sicuramente la volontà di dominare il possesso e di superare le linee di pressione costruendo dal basso e provando a smistare velocemente il pallone con l’obiettivo di verticalizzare al momento opportuno. Gli automatismi difensivi sono ancora da limare.
HAZARD E PEDRO L’ARMA IN PIU’
I dubbi più forti sono legati principalmente alla tenuta mentale e alla concentrazione che riuscirà a dimostrare David Luiz. Rudiger invece dà la sensazione di poter mettere in mostra i suoi enormi mezzi fisici e atletici sia nel difendere in avanti che nel rincorrere gli avversari all’indietro qualora i movimenti della linea non dovessero essere perfetti. La classifica per ora dice punteggio pieno. L’idea di calcio di Sarri si sta già intravedendo. E’ doveroso aggiungere però che il punto esclamativo su gran parte delle gare giocate non sarebbe probabilmente arrivato senza l’imprevedibilità e il tasso tecnico di calciatori come Hazard e lo stesso Pedro. Le caratteristiche dello spagnolo si sposano benissimo con il nuovo sistema di gioco, ma l’evoluzione e l’eventuale riuscita di questo progetto tecnico passeranno molto anche dalla capacità da parte di Sarri di capire che determinate individualità necessitano sempre delle chiavi grazie alle quali poter uscire dalla gabbia di schemi rigidi e codificati nei momenti topici delle gare. Spiegare l’importanza di Jorginho è abbastanza superfluo. Una delle cose più interessanti è sicuramente il nuovo compito a cui viene chiamato Kantè. I paragoni dal punto di vista tattico con Allan già si sprecano. Kovacic ha la grande occasione di dare finalmente una forma definita al suo enorme e inespresso talento. Marcos Alonso è ormai a tutti gli effetti uno dei migliori laterali mancini al mondo. La sorpresa è Willian, che sembra esaltarsi nel gioco del toscano. Il gol del 4-1 contro il Cardiff né un esempio lampante.
ARSENAL E IL RISCATTO DI EMERY
Dopo il fallimento alla guida del PSG, Unai Emery ha l’occasione del riscatto alla guida dell’Arsenal. Una squadra e una società che, succube probabilmente dell’incapacità da parte di Wenger di comprendere che il suo ciclo fosse finito già da qualche anno, è riuscita finalmente a ripartire puntando su un nuovo progetto tecnico. L’ambiente per l’allenatore spagnolo è quello ideale. Nessun tipo di pressione per quanto riguarda traguardi e risultati immediati, tempo a disposizione, e calciatori ai quali poter trasmettere il suo credo calcistico. Le possibilità di vedere un calcio veloce, verticale e di qualità non sono poi così basse. Il ciclo ha appena varcato la soglia dell’Emirates e la pazienza assolutamente necessaria per provare a costruire qualcosa che possa poi rendere il futuro credibile e ambizioso. Occhio a Guendouzi, centrocampista arrivato dalla Ligue 2 e lanciato a sorpresa titolare in mezzo al campo.
SPECIAL ONE AI TITOLI DI CODA?
Il matrimonio tra Mourinho e il Manchester United sembra invece sul punto di terminare ogni giorno che passa. Cercare di capire quali possano essere le reali aspettative di questa stagione per i Red Devils è in questo momento molto complicato. Sarebbe veramente un peccato però che la carriera di un tecnico che è stato grandissimo e che è di diritto nella storia di questo sport, ma che dalla mancata Decima con il Real allena quasi formalmente, possa chiudersi con una piega così disastrosa.
WEST HAM ED EVERTON
Le realtà di medio livello interessanti come ogni anno non mancano all’appello. Guardando esclusivamente agli organici, le due squadre che sulla carta potrebbero dire la loro subito dopo le migliori sono sicuramente il West Ham e l’Everton. Se l’inizio degli Hammers è stato disastroso sotto quasi ogni punto di vista, quello dell’Everton sembra invece rispecchiare maggiormente le importanti aspettative. Marco Silva, non poteva scegliere forse squadra e momento migliore di questo per trovare conferme e prendere il volo. L’arrivo di Richarlison, possibile crack di questa stagione, sponsorizzato proprio dal tecnico portoghese, è un buon punto di partenza.
BOURNEMUTH, LEICESTER E FULHAM
Un’attenzione di riguardo, oltre al solito Bournemouth di Eddie Howe e all’ottimo organico del Leicester, merita il neopromosso Fulham di Jokanovic. Una squadra dalla mentalità propositiva e dal gioco molto interessante, portata a non snaturarsi quasi mai a prescindere dall’avversario. Attorno alle figure del nuovo acquisto Seri, Schurrle, Mitrovic e soprattutto del giovanissimo Sessegnon, può costruire una stagione tutt’altro che anonima. In linea con la sua storia, la speranza è che il Craven Cottage sia tornato nel regno della Premier per restarci. Menzione, infine, al sorprendente Watford dello spagnolo Javi Gracia, a punteggio pieno. Insieme a Liverpool e Chelsea dopo quattro giornate, e capace di superare anche il Tottenham nell’ultimo turno. La squadra ha per ora impressionato per compattezza, organizzazione di gioco e capacità di rendersi pericolosa. Il campionato è appena iniziato, ma gli ingredienti per una stagione di personalità sembrano esserci.
LOTTA SALVEZZA
La lotta salvezza sarà combattuta come al solito, e ad eccezione del Cardiff, forse la meno attrezzata in questo momento per rimanere nella massima serie. La lotta vedrà coinvolti diversi personaggi, che ora è decisamente troppo presto per delineare. Terribile l’inizio del Burnley, che dopo il grandissimo campionato dello scorso anno, è uscito ai preliminari di Europa League. Ha perso tre partite su quattro. L’insolita vulnerabilità difensiva mostrata in queste prime uscite non fa altro che rimarcare come proprio la solidità e il reparto arretrato abbiano costruito gran parte delle fortune della scorsa stagione. Il Wolverhampton, vincitore della Championship, può dire la sua sfruttando il fattore campo. Propone un calcio tecnico e di posizione, frutto dell’ottimo lavoro di Nuno Espirito Santo e di un organico che ha come prima lingua il portoghese.